«Io non ho un problema con la società, è la società che ha un problema con me», mi disse Nunzio Giuliano nello studio dell’avvocato Alfonso Furgiuele a Napoli. Era uno dei fratelli del clan camorrista per anni egemone a Forcella e nell’intera città, dopo la guerra vincente contro i cutoliani. Viveva in via Ascensione nel quartiere Chiaia, nella zona bene, dopo aver lasciato Forcella. Aveva prima gestito un garage, poi un bar, infine il ristorante biologico “Cucina amica”. Tutte attività economiche aperte nel quartiere Chiaia. La sua vita era cambiata dopo la morte per overdose del figlio diciassettenne Pio Vittorio, avvenuta in un giovedì che ricordava sempre, quello del 10 dicembre 1987. Anche in quel pomeriggio dello studio del suo avvocato, voleva dimostrare di aver preso le distanze dal clan, dalla vita di camorrista, dalle logiche di sangue. Eppure, la cognata Carmela Marzano, moglie del capoclan Lovigino primo fratello di Nunzio, mi aveva detto nei corridoi del tribunale al centro direzionale: «Fa tante parole, ma poi è puntuale ogni mese a Forcella a venirsi a prendere lo stipendio che rivendica dalla famiglia». Misteri e vite segnate.
La morte del figlio
Pio Vittorio si trovava nella casa della nonna materna al vico Santa Maria a Cancello 2, nel cuore del quartiere San Lorenzo, quando morì. Venne stroncato da un’overdose di eroina, di cui era dipendente. Sperando che potesse salvarsi, venne portato al vicino ospedale Ascalesi proprio all’inizio del quartiere Forcella, ma era già morto. Il tam, tam fu immediato: era morto il figlio di Nunzio, nipote del capoclan Lovigino. In quel momento, Nunzio era al soggiorno obbligato a Verona ed era già nonno: proprio Pio Vittorio, due anni prima ad appena 15 anni, aveva avuto un figlio che naturalmente aveva chiamato Nunzio. Il corpo del ragazzo venne portato nella sala mortuaria dell’Ascalesi, quando non meno di 200 persone assalirono l’ospedale per farselo consegnare. I sanitari non poterono fare nulla. La gente di Forcella, sobillata dal clan, ottenne di portare il cadavere di Pio Vittorio junior in casa di Lovigino per la veglia funebre. Un gesto clamoroso, che non poteva passare in sordina. Ci pensò il vice questore Matteo Cinque, dopo aver fatto circondare dalle volanti della polizia la casa di Lovigino Giuliano che in quel momento era agli arresti domiciliari, a farsi riconsegnare il corpo del ragazzo per riportarlo all’Ascalesi come prevedevano le norme che vietano di portare a casa il corpo di chi era morto in ospedale.
Il quartiere
Il quartiere-Stato di Forcella, in quel 1987 saldamento sotto il controllo criminale e l’egemonia culturale del clan Giuliano, venne tappezzato di centinaia di manifesti a lutto. A Enzo Perez, il cronista di nera più noto del “Mattino” di quei giorni, Nunzio Giuliano disse: «Mi ero rivolto anche a don Riboldi per aiutare questo mio figlio che non aveva voluto più studiare a 12 anni quando cominciò a bucarsi, ma lui non voleva farsi aiutare».
Nunzio Giuliano, condannato a tre anni di soggiorno obbligato, nel 1987 si era trasferito già nella sua casa di via Ascensione, da dove faceva la spola con Forcella. Non aveva ancora scelto di tagliare i ponti con la sua famiglia e la sua vita nel clan. I funerali di Pio Vittorio si tennero nella chiesa di Egiziaca a Forcella, sabato 12 dicembre 1987. Vi parteciparono cinquemila persone, che bloccarono il traffico con un lungo corteo dietro la Mercedes nera dove la bara venne portata al cimitero. In chiesa, c’erano almeno 250 corone di fiori. L’enorme corteo fu fotografato e documentato per “Il Mattino” da Mario Siano. Per Nunzio, la morte del figlio fu una svolta di vita. Almeno così avrebbe dichiarato qualche settimana dopo. Annunciò che, alla fine del soggiorno obbligato, avrebbe lasciato definitivamente Forcella. Parlò contro la droga e contro lo spaccio della camorra. Poco più di due anni dopo, si rese protagonista di un episodio che fece scalpore: nella chiesa di Santa Maria delle Grazie in piazza Cavour, il parroco don Antonio Maione gli cedette il microfono durante l’omelia. E Nunzio parlò ai fedeli, fece un discorso provocatorio: «Un bambino della Sanità è destinato a morire perché è della Sanità», disse tra le altre cose.
Il marchio
La sua fu una testimonianza provocatoria, come a dire: se sono stato un camorrista, è perché mi ha condizionato la vita e l’ambiente in cui sono nato come una condanna ineluttabile Era domenica 27 maggio 1990. Le reazioni e le polemiche a quell’iniziativa furono tante. Scrisse sul “Mattino” lo scrittore Luigi Compagnone: «È uno scandalo meraviglioso. Quel prete mi è piaciuto. Napoli, e non solo Napoli, oggi ha bisogno di tali scandali. Ogni scandalo fa luce, da ragazzo mi piacque un altro prete, il vescovo di Digne del romanzo I miserabili. Se Nunzio Giuliano si fa vivo con me, gli regalo proprio I miserabili».
I magistrati non credevano al ravvedimento di Nunzio, su di lui rimasero in vigore i provvedimenti di sequestro e le misure di prevenzione. Continuava a vivere a Chiaia, girando liberamente per l’Italia. E proprio in un viaggio nel centro Italia lo aveva fermato la polizia, diffidandolo. Per questo, si trovava nello studio dell’avvocato Alfonso Furgiuele quando lo incontrai per intervistarlo. Ma la sua vita era segnata e, da lì a qualche anno, sarebbe finita in modo tragico.
La morte
Da via Bausan, Nunzio Giuliano si era trasferito prima a Marechiaro poi in via Tasso. Si sentiva osservato, pedinato. Nel dicembre del 2004, denunciò un tentativo di aggressione nella zona tra San Pasquale e la Riviera di Chiaia. Il 21 marzo 2005, era in motorino con la convivente 44enne Maria Rosaria Rivieccio. Tornava a casa e, in uno dei curvoni di via Tasso, venne affiancato da due killer a bordo di una moto. Non ci fu scampo, nonostante un suo tentativo di accelerare il motorino per fuggire. Lo raggiunsero sei colpi di pistola, diretti alla testa e al torace, il motorino rimase sull’asfalto con il suo conducente ormai senza vita in un lago di sangue. Vittima di un agguato camorristico a 57 anni. Quella stessa mattina, Lovigino Giuliano, diventato collaboratore di giustizia con gli altri suoi fratelli, aveva deposto in corte d’Assise accusando Giuseppe Misso, capoclan della Sanità, imputato di omicidio.
Un anno e due mesi dopo, sul delitto parlò un rapinatore con precedenti per ricettazione a truffa. Si chiamava Mario Cafiero, allora trentanovenne. Era nel carcere di Cassino e annunciò di voler collaborare con la giustizia. Rivelò: «Un amico della Sanità, fedelissimo di Giuseppe Misso, mi chiese di accompagnarlo a fare una rapina. Procurai le armi, lui incontrò un altro uomo e io attesi fuori all’hotel Britannique. Andarono con le armi e tornarono, dicendomi abbiamo fatto un grosso guaio. Seppi che era stato ucciso Nunzio Giuliano».
Scarcerato per indulto, l’uomo non confermò il suo racconto che portava alla pista della vendetta trasversale legata al clan Misso. Il destino maledetto di Nunzio Giuliano era segnato. «Non è sfuggito al destino familiare», commentò l’allora pm della Dda Raffaele Marino. Il destino di una famiglia dove, morto per tumore Carmine, ucciso Nunzio, gli altri fratelli sono diventati tutti collaboratori di giustizia. E oggi vivono lontano da Napoli.
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