CrimiNapoli / 17: Giuseppe Setola e la stagione stragista dei Casalesi

CrimiNapoli / 17: Giuseppe Setola e la stagione stragista dei Casalesi
di Gigi Di Fiore
Venerdì 11 Febbraio 2022, 13:00 - Ultimo agg. 23:00
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Era riuscito a evadere, corrompendo un oculista. Fingendosi quasi cieco, era riuscito a farsi ricoverare in una clinica a Pavia, agli arresti domiciliari per un intervento agli occhi. Ma, dopo appena due giorni di ricovero, Giuseppe Setola, classe 1970, era riuscito a fuggire. Lo chiamavano ‘o cecato, ma era tutt’altro che cieco. Inizià da questa fuga la sua folle stagione di sangue nella primavera del 2008, che sarà ricordata come il periodo stragista del clan casertano dei Casalesi.

Sangue e morte

Era un semplice affiliato, Giuseppe Setola, un gregario di seconda fila, anche se spietato e pronto a uccidere. Un gregario del clan piramidale dei Casalesi sul litorale domizio. Il suo riferimento nel direttivo di vertice era stato Francesco Bidognetti, detto “Cicciotto ’e mezzanotte”, che in quel 2008 si trovava in carcere. Era detenuto da tempo anche Francesco Schiavone, detto “Sandokan”. Ma il clan continuava a essere attivo e pericoloso, con due capi del direttivo di vertice ancora liberi: Antonio Iovine detto “o ninno” e Michele Zagaria. Due latitanti di seria A, che restavano riferimento stabile per gli affiliati di uno dei più violenti gruppi della camorra, impenetrabile fino alla mega-inchiesta "Spartacus", coordinata dall’allora pm Federico Cafiero de Raho coadiuvato dal sostituto procuratore nazionale antimafia Lucio Di Pietro. I Casalesi avevano terrorizzato per anni l’intero territorio casertano. Sin dai tempi del boss Antonio Bardellino agli inizi degli anni’80 del secolo scorso, si erano dimostrati spietati e capaci di intrecciare alleanze e affari con tutti i gruppi della provincia napoletana e con le cosche siciliane. 

In quella primavera del 2008, le inchieste giudiziarie nella sezione della Dda napoletana che si occupava dei Casalesi erano coordinate dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho. Fino ad allora, i magistrati erano già riusciti ad assestare molti colpi al clan. Setola scese in Campania e prese contatti con il latitante Zagaria, per riceverne appoggio e assenso alle sue iniziative. La sua intenzione era riprendere le estorsioni, spendere vendette, terrorizzare tutta l’area costiera casertana. Creò un gruppo di violenti, di cui faceva parte anche Alessandro Cirillo, classe 1976, detto “’o sergente”, già reggente del gruppo Bidognetti. Un affiliato senza scrupoli che a 32 anni, e con il boss detenuto, era diventato un riferimento importante del gruppo Bidognetti nelle estorsioni. Oltre a Cirillo, Giuseppe Setola aveva reclutato un altro latitante: Giovanni Vargas.

E altri ancora. Spiegò agli inquirenti Domenico Bidognetti, nipote del capoclan: “Al vertice del gruppo, dopo l’arresto di Giuseppe Dell’Aversano c’è stato Giuseppe Setola, che si avvaleva di Alessandro Cirillo”.

Il gruppo di quel 2008 si completò con l’aversano Emilio Di Caterino, classe 1974, i fratelli Vargas, Oreste Spagnuolo e i cugini Letizia. Gente decisa, sensibile al fascino della cocaina. I Casalesi erano ancora una specie di araba fenice, capaci di rigenerarsi con l’attività di disperati in fuga. Gente capace di violenti colpi di coda. Come accadde in quella triste primavera.

Le azioni 

Fu la feroce “campagna di primavera”, che partì con Michele Orsi, imprenditore, ucciso a Casal di Principe in corso Dante. Un avvertimento sanguinoso: Setola e i suoi uomini facevano capire che erano tornati, che era pericoloso collaborare con i magistrati, come sembrava fosse pronto a fare proprio Orsi che aveva lanciato segnali di pericolo. Ai funerali dell’imprenditore ucciso, lo ricordò il parroco don Delio Pellegrino, che disse: «Michele aveva fatto la scelta giusta, anche sa ha pagato. La scelta che dovrebbero fare tutti, se vogliamo che ci sia un futuro. Ma lo Sato deve essere più presente, dando un segnale concreto della sua vicinanza».

Michele Orsi fu il primo, ma la scia di morte era solo agli inizi. Dopo Orsi, toccò a Umberto Bidognetti, 69 anni, allevatore di bufale. Lo massacrarono in tre, mentre era da solo a badare ai suoi animali. Aveva pagato la scelta del figlio, Domenico Bidognetti detto “Mimì bruttaccione”, che aveva iniziato a collaborare con i magistrati. Un pentito che si era esposto, anche lanciando messaggi pubblici sostenendo: «Il clan dei Casalesi non è altro che una ragnatela per accaparrarsi la vita degli altri in modo che la loro si allunghi. Chiedo scusa a tutti quelli a cui ho fatto del male». L’omicidio del padre di Domenico Bidognetti, appena un mese dopo la diffusione di quel messaggio, era anche un avvertimento indiretto al boss detenuto Francesco Bidognetti, che qualcuno diceva pronto a pentirsi.

Gli assassini del gruppo Setola consumarono anche vendette postume, con chi aveva avuto in passato il coraggio di reagire. Come Domenico Noviello, che a Castelvolturno qualche anno prima aveva denunciato i suoi estorsori. Aveva una scuola guida a largo Sementini. Lo attesero poco distante e lo uccisero. La spirale di morte proseguiva. Ma prima venne lanciato un avvertimento senza vittime: l’incendio della fabbrica di materassi Hardflex a Santa Maria Capua Vetere, gestita da Pietro Russo, uno degli imprenditori impegnato nelle associazioni antiracket. Il gruppo Setola batteva cassa e non si fermò nella sua scia di sangue. Il nuovo bersaglio fu Raffaele Granata, che gestiva il lido balneare “La Fiorente” sul litorale di Licola. Morì per non aver voluto pagare, per aver resistito alle richieste di Setola e dei suoi uomini, per aver denunciato. 

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Sette morti provocò invece l’irruzione in un laboratorio sartoriale a Baia Verde. Erano operai extracomunitari. Otto killer entrarono a sparare, Setola voleva far capire che nessuno poteva sottrarsi a pagare le estorsioni. Neanche i numerosi extracomunitari con le loro attività sul litorale. Fu una strage, che provocò reazioni indignate, con manifestazioni, un concerto di solidarietà tenuto da Miriam Makeba, che sarebbe morta per un malore proprio al termine di quell’esibizione organizzata contro l’arroganza della camorra. Mamma Africa era venuta a morire accanto alla sua gente immigrata e vittima della violenza camorristica.

Lo Stato reagì. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, era ogni mese a Caserta per fare il punto con gli inquirenti sulle indagini e sulle repressioni. Fu intensificato il controllo del territorio con i soldati e accelerate le indagini. Era il “modello Caserta”, che avrebbe fatto scuola. Il destino di Setola e del suo gruppo era segnato. A turno, furono tutti catturati. Dopo essere sfuggito una prima volta, Setola fu individuato, braccato e arrestato il 12 gennaio 2009 a Mignano Montelungo. Aveva cercato di scappare in un tunnel, ma inutilmente. Dopo otto mesi, finiva la stagione di fuoco dei Casalesi. Stagione di lutti e sangue. L’8 ottobre 2014, Setola annunciò in tribunale che avrebbe iniziato a collaborare con la giustizia, come aveva già fatto Alessandro Cirillo. Ma dopo meno di un mese, ci ripensò. In poco tempo, nella successione dei primi processi che lo coinvolgevano fu condannato a tre ergastoli. Definitive le condanne per l’omicidio di Michele Orsi e per la strage di Castelvolturno. Dopo di lui, sarebbero stati individuati e arrestati anche i boss Antonio Iovine, che poi iniziò a collaborare con gli inquirenti, e Michele Zagaria. La struttura storica dei Casalesi fu sgominata. Il clan camorristico-mafioso, nato con Antonio Bardellino durante la guerra contro i cutoliani negli anni ’70 del secolo scorso, non esisteva più. Lo Stato aveva vinto. Federico Cafiero de Raho, principale artefice del coordinamento delle inchieste nella Dda napoletana contro i Casalesi, sarebbe diventato prima procuratore capo di Reggio Calabria e poi il procuratore nazionale antimafia fino alla pensione. 

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