CrimiNapoli / 10 Napoli, la strage del Rapido 904 e l'ambiguo ruolo del clan Misso

CrimiNapoli / 10 Napoli, la strage del Rapido 904 e l'ambiguo ruolo del clan Misso
di Gigi Di Fiore
Venerdì 17 Dicembre 2021, 11:03 - Ultimo agg. 18 Dicembre, 07:44
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«Nell’inchiesta sulla strage del rapido 904, fui accusato con il teorema dell’equazione mafia-camorra-eversione di destra. Se non si fosse ipotizzata la mia appartenenza alla camorra, cadeva quel teorema». Fu diciotto anni fa, nell’intervista che mi diede nella sua casa di via Donnaregina a Napoli, successivamente confiscata dallo Stato, che Peppe Misso accennò anche alla drammatica strage che fu crocevia della sua carriera criminale. Aveva allora 57 anni, era tornato libero ma sarebbe stato riarrestato due settimane dopo quell’intervista, per poi scegliere di diventare collaboratore di giustizia. Misso e la strage del rapido 904, inquietante vicenda nella storia d’Italia diventata pagina buia anche nella storia della camorra.

Il 23 dicembre saranno 37 anni da quel giorno tremendo. Periodo di festa, vicino al Natale. Non c’erano ancora le Frecciarossa, per andare a Milano da Napoli occorrevano in treno quasi otto ore. Naturalmente, se si prendeva il Rapido che era il treno più veloce. Era proprio un Rapido, numero 904, quello che saliva verso Milano il giorno prima della vigilia di Natale del 1984. Tanta gente a bordo. Alle 19,08, superata la stazione di Vernio, poco dopo l’ingresso nella galleria dell’Appennino, il boato. Sul treno, che era lanciato a una velocità di 150 chilometri all’ora, esplose una bomba che fece una strage: 16 morti e 266 feriti. L’esplosione all’interno della galleria ne aggravò gli effetti. Il panico, al buio, con i feriti che si lamentavano, la polvere e gli oggetti sballottati dallo scoppio, il treno arrestato bruscamente, trasformarono quei minuti in un incubo. A provocare lo scoppio era stata una bomba radiocomandata, inserita in una valigia nella carrozza numero nove di seconda classe lasciata sulla griglia per i bagagli sopra i sediolini. Una valigia lasciata sul treno durante la sosta alla stazione fiorentina di Santa Maria Novella.

Era la replica della strage sul treno Italicus di dieci anni prima. La strategia della tensione che non si interrompeva. Stavolta, l’inchiesta, affidata nella Procura di Firenze a Pierluigi Vigna futuro procuratore nazionale antimafia, esplorò anche la pista della collaborazione tra mafia e terrorismo di destra.

Un connubio che, avrebbe spiegato la commissione d’inchiesta sulle stragi presieduta da Giovanni Pellegrino, sarebbe nato per “reazione di Cosa nostra alla collaborazione di alcuni pentiti come Buscetta e Contorno, nel tentativo mafioso di rinsaldare, minacciando un salto qualitativo dell’azione offensiva, legami istituzionali che sembravano allentarsi”. Insomma, un primo atto della strategia di Cosa nostra che avrebbe fatto da premessa agli attentati di Capaci e via D’Amelio nel 1992, seguiti l’anno successivo dalle bombe a Firenze, Milano e Roma. Senza telefonini, allora inesistenti, l’allarme fu lanciato da un controllore utilizzando un telefono di servizio installato nella galleria. Tra le sedici vittime, il più piccolo, Giovanni De Simone, aveva 4 anni; la più anziana, Lucia Cerrato, 66.

L’inchiesta coinvolse anche il clan camorristico Misso della Sanità. L’ipotesi del pm Vigna fu che la mafia si era rivolta proprio alla camorra per procurare l’esplosivo e ottenere aiuti per sistemare la bomba sul treno. Un’ipotesi su cui nel 1986 scrissero per primi Peppe D’Avanzo su “Repubblica” e Franco Di Mare su “l’Unità”. Vigna li convocò per sapere le fonti delle loro informazioni, poi li arrestò per convincerli. Di Mare venne subito liberato, rivelando di aver ricevuto le notizie dal collega. D’Avanzo, come prevedeva allora il codice, rifiutando di rivelare le sue fonti, rimase una settimana nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere per rivelazione di segreto istruttorio. Alla scarcerazione, Peppe, che era corrispondente da Napoli, ebbe il contratto di assunzione al quotidiano di Eugenio Scalfari e si trasferì definitivamente a Roma. Poco prima, come a tutti i redattori già con contratto, il direttore gli aveva fatto avere la penna in regalo per celebrare i dieci anni del quotidiano.

La pista camorra fu rivelata da due collaboratori interni al clan Misso: Lucio Luongo e Mario Ferraiuolo. Tutto sarebbe nato dalle conosciute simpatie di Peppe Misso per la destra e il Msi. Qualche anno prima, aveva fatto scalpore la denuncia dell’avvocato Angelo Cerbone, che aveva raccontato la visita elettorale nel 1983 di Giorgio Almirante nel quartiere Sanità, dove fu portato da esponenti napoletano del suo partito ignaro di incontrare persone di ambienti camorristi. Mi rispose, sempre nell’intervista del primo dicembre 2003 per “il Mattino” Peppe Misso sulla domanda che riguardava le sue simpatie per il Msi di cui aveva anche avuto la tessera: «Oggi non esiste più la destra o la sinistra. La destra oggi fa le cose della sinistra e viceversa. Nel modo più assoluto, oggi non appoggerei Almirante o qualsiasi altro partito in una campagna elettorale».

La ricostruzione ipotizzata da Vigna sosteneva che l’allora deputato e consigliere comunale missino Massimo Abbatangelo, dopo una serie di riunioni, avesse consegnato a Misso armi e esplosivo. Successivamente, sostennero i pentiti Luongo e Ferraiuolo, la bomba fu portata a Roma da Lucio Luongo che l’avrebbe lasciata a Peppe Calò cassiere della mafia, uomo di Cosa nostra nella capitale. Insomma, il clan Misso come tramite per assicurare alla mafia l’esplosivo necessario all’attentato: era questa la costruzione dell’accusa.

Calò mandante della strage, un gruppo di napoletani del clan Misso avevano contribuito alla strage procurando e consegnando l’esplosivo ricevuto da Abbatangelo: furono le conclusioni della Procura di Firenze. Dal processo in primo grado nel 1989 alla sentenza definitiva della Cassazione nel 1992, si arrivò alla definitiva verità giudiziaria: assolto per il reato di strage, Misso e i suoi affiliati furono condannati solo per detenzione di esplosivo. Anche Massimo Abbatangelo nel suo processo fu assolto dal reato di strage. Una vicenda che avrebbe avuto ripercussioni sanguinose anche per Misso e il suo clan. Il 14 marzo 1992, al ritorno da Firenze dove avevano assistito alla lettura della sentenza della corte d’Assise d’appello, Assunta Sarno, moglie di Misso, con gli affiliati Alfonso Galeota e Giulio Pirozzi, in auto all’uscita dell’autostrada di ritorno a Napoli, furono assaltati dai killer dei clan dell’Alleanza di Secondigliano. Galeota fu ucciso, come Assunta Sarno che fu finita dai killer con un colpo di pistola in bocca. «Quando hanno ammazzato in quel modo mia moglie, ho provato un forte sentimento di vendetta. Ora non più, anche se certamente non perdono chi ha ucciso Assunta» mi disse Misso. Giulio Pirozzi si finse morto e, anche se ferito, si salvò insieme con la moglie Rita Casolaro.

Nessun risarcimento è andato alle vittime della strage del Rapido 904. La verità giudiziaria condannò all’ergastolo Pippo Calò e Guido Cercola, ma i dettagli sull’attentato rimasero monchi, nonostante le condanne per detenzione di esplosivo a Franco D’Agostino e Friedrich Schaudinn. Ogni anno, la mattina del 23 dicembre l’associazione Libera insieme con l’associazione che raggruppa i familiari delle vittime organizza una piccola manifestazione di ricordo alla Stazione centrale di Napoli. L’associazione familiari delle vittime ha fornito materiale per una pubblicazione che ricorda l’intera vicenda. A Federica Taglialatela, la ragazzina morta nell’attentato, è stata dedicata una canzone intitolata “Il sogno spezzato di Federica”. Alla strage del Rapido 904, dedica diversi passaggi la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta, inquadrandola nel rapporto tra eversione nera e servizi segreti deviati, in confluenza di interessi con la strategia stragista di Cosa nostra. Una vicenda inquietante, anche nella storia della camorra.

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