CrimiNapoli / 40: la camorra al cinema dal Padrino a Gomorra

CrimiNapoli / 40: la camorra al cinema dal Padrino a Gomorra
di Gigi Di Fiore
Venerdì 29 Luglio 2022, 13:00 - Ultimo agg. 16:03
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Il primo compie 70 anni. Era il 1952 quando uscì “Processo alla città” di Luigi Zampa, con aiuto regista Francesco Rosi. Fu il primo vero film sulla camorra, la ricostruzione delle vicende del processo Cuocolo che si era celebrato a Viterbo 41 anni prima e aveva avuto poi tanti strascichi e polemiche sull’attendibilità del pentito Gennaro Abbatemaggio a sulla fondatezza delle indagini. 

Camorra e cinema, un connubio che ha avuto tanti protagonisti e diversi approcci. Ma c’è un prima e un dopo nei film sulla criminalità organizzata campana. E quel prima e dopo, quello spartiacque, si chiama “Il Padrino”, il film di Francis Ford Coppola tratto dall’omonimo libro di Mario Puzo che raggiunse la cifra record di 20 milioni di copie vendute nel mondo, uscito proprio 50 anni fa. Era il 1972. 

Il Padrino 

“Il Padrino” cambiò taglio e metodi nel modo di raccontare le mafie, la macchina da presa si spostò dentro le dinamiche delle famiglie e dei personaggi criminali. Lo hanno descritto e spiegato, in un bellissimo e interessante libro (“Il mito di Cosa Nostra” edito da Solferino), Antonio Nicaso (storico della ‘ndrangheta e docente in Canada autore di diversi libri con il procuratore Nicola Gratteri) e il ricercatore Rosario Giovanni Scalia. Puzo fu influenzato dalla cronaca, sua fonte primaria, ma le sue analisi psicologiche sui mafiosi americani scavarono in profondità nel libro come nella sceneggiatura di cui fu coautore. E l’effetto fu che la mafia mutuò i suoi successivi comportamenti culturali dagli atteggiamenti dei personaggi del film, affascinata da quel racconto-saga in cui aveva imposto attori condizionando le riprese della pellicola di Coppola. Cosa Nostra fu sdoganata, i criminali divennero protagonisti e nella pellicola fanno simpatia e meno paura, nonostante gli efferati delitti e la spietatezza descritte con precisione nelle sequenze. Simboli e allusioni, saga dinastica e racconto di emarginazione degli italo-americani: Nicaso e Scalia forniscono letture originali su un fenomeno cinematografico, e prima ancora editoriale, di dimensione mondiale e dai numeri di un successo che nessuno avrebbe più raggiunto. Scrivono: «Il prezzo pagato da Paramount al boss Colombo e a Cosa Nostra è molto più alto della semplice estromissione della parola mafia dalla sceneggiatura. Nell’attività di pre-produzione e durante le riprese la presenza della mafia è tangibile. Non poche sono le situazioni borderline. La mafia impone alla troupe molti suoi uomini, nei più svariati ruoli». Fu il prezzo pagato per non avere problemi dai mafiosi, con Puzo che precisava: «Mi sono ispirato alle cronache e ai documenti delle commissioni d’inchiesta, non ho mai avuto informatori interni alla mafia».

La camorra 

Prima di quel 1972 spartiacque nel modo di raccontare le mafie, che avrebbe avuto diversi emulatori anche in Italia, i film sulla criminalità organizzata in Italia erano soprattutto pellicole di superficie, che sfioravano il fenomeno con una evidente scelta di campo nella denuncia: “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica nel 1954 ispirato al libro di Giuseppe Marotta dove aleggia la figura violenta del guappo senza affondare più di tanto l’analisi di questo personaggio; “La sfida” di Francesco Rosi nel 1958; “Lo sgarro” di Silvio Siano nel 1962 dalla parte di un giovane eroe della provincia napoletana che rifiuta di pagare il pizzo alla camorra. In prevalenza, si tratta di pellicole con riflettori puntati sulla camorra rurale, quella dei mercati ortofrutticoli che prospera a Nola come a Giugliano. Su Napoli, invece, la visione è ancora legata alla presenza del guappo, a metà tra il difensore della povera gente e il violento rispettato. 

La svolta del “Padrino” determina un nuovo modo di raccontare anche la camorra al cinema. Proprio nello stesso anno del famoso film di Coppola e Puzo, esce “Camorra” di Pasquale Squitieri, che si ispirò molto ai testi di Ferdinando Russo e Ernesto Serao sulla criminalità di fine Ottocento e inizio Novecento. Lo stesso regista fu autore, appena due anni dopo e cioè nel 1974, del film “I guappi” con protagonisti Franco Nero, Fabio Testi e Claudia Cardinale. Un racconto sulla criminalità di Napoli, con affondo sulle origini socio-economiche, che descrive figure e evidenzia le differenze tra guappi e camorristi. Emblematica la frase sprezzante del guappo Fabio Testi rivolta a un suo rivale: «E piriti de cule rutte nun fanno rummore».

Film e sceneggiate 

Parallelo e popolare fu il filone assai ricco in quegli anni ’70 del secolo scorso, che attingeva a storie lacrimevoli prese dal mondo della sceneggiata, con camorristi o contrabbandieri di estrazione popolare, costretti dalla miseria alla loro scelta criminale, legati alla famiglia, alla madre e ai figli, che spesso facevano una brutta fine. Mario Merola ne fu spesso protagonista, con Alfonso Brescia tra i registri principali.

Fu il filone di film come “Sgarro alla camorra” del 1973, “Napoli violenta” del 1976, “Napoli spara” del 1977, “Napoli si ribella” dello stesso anno, “Onore e guapparia” sempre del 1977. E poi la serie di Alfonso Brescia, a partire dal 1978: “L’ultimo guappo”, “Napoli serenata calibro 9”, “I contrabbandieri di Santa Lucia”.

La concentrazione di quelle pellicole negli anni ’70 non fu casuale. Era l’effetto del grande successo del “Padrino”, con la scoperta di un genere cinematografico che attirava molto e incuriosiva il pubblico. Non solo quello borderline ai fenomeni criminali. Nel frattempo, “Il Padrino” ebbe due sequel, con il secondo di grande successo proprio come era stato il primo film. I premi Oscar non si contarono. 

Da Tornatore a Garrone

Non sembra poi così strano che per la sua opera prima Giuseppe Tornatore si sia ispirato a un libro, di cui erano stati acquistati i diritti, e al tema della criminalità organizzata. Quattordici anni dopo “Il Padrino” uscì “Il camorrista”, tratto dal libro omonimo che il giornalista Joe Marrazzo pubblicò con Tullio Pironti. Un libro di un grande cronista, che consumava scarpe e aveva dimostrato coraggio intervistando camorristi, firmando per la televisione reportage pericolosi. Il libro era una prima biografia di Raffaele Cutolo, il capo e fondatore della Nuova camorra organizzata, che era stata la svolta mafiosa della camorra nel dopoguerra. La camorra che si faceva massa e, in contatto con politici e imprenditori, scatenava la più violenta e sanguinosa guerra criminale in Campania dal secondo dopoguerra. Tornatore raccontava Cutolo mantenendosi fedele al testo di Marrazzo, ma non dimenticava la figura positiva di un ideale commissario, interpretato da Leo Gullotta, che arrestava i camorristi, gestiva le indagini, perseguitava il boss che alla fine usciva sconfitto rinchiuso nel carcere dell’Asinara. La figura positiva della legalità contrapposta al crimine. Ma l’influenza del “Padrino” si avvertiva anche in questo film. E hanno scritto nel loro acuto libro Nicaso e Scalia: «Il Padrino non è solo alle origini dei grandi affreschi epici del mondo italo-americano, di una narrazione tragica della mafia o di un nuovo modo di scrivere i gangster movie. Esso contiene in nuce molti altri elementi che ispireranno successive narrative sulla criminalità organizzata, al di qua e al di là dell’Oceano»”.

Ed è vero, dopo “Il Padrino”, in questa materia nessuno ha inventato nulla. Neanche Roberto Saviano con il suo libro “Gomorra”, ispirato alle cronache dei giornali e agli atti giudiziari utilizzando l’artifizio narrativo dell’io narrante di un testimone-narratore che, proprio come Puzo, aveva invece scritto di quelle vicende dopo averne letto altrove, rielaborandole. Era in fondo la stessa operazione di Emilio Salgari che, nell’800, aveva scritto romanzi su pirati e filibustieri senza aver mai visto i luoghi descritti e senza mai essersi mosso dalla sua Torino.

Gomorra

Dal libro di Saviano, che è del 2006, nel 2008 Matteo Garrone trasse il suo film omonimo. L’operazione “Il Padrino” trovava ulteriori e più sofisticati epigoni italiani a distanza di 36 anni. Dalla mafia italo-americana alla camorra della periferia a nord di Napoli, intrecciata con la mafia-camorra della provincia casertana, come da suddivisione in sezioni del libro. Da una saga a un’altra saga, stavolta si tratta di spietati camorristi napoletani tutti di cultura popolare, tatuaggi, con accentuazioni e esasperazioni, protagonisti assoluti della scena mai offuscata da divise di poliziotti o carabinieri. Un taglio narrativo di successo, che si sviluppa, anche in questo caso come già era stato per “Il Padrino”, in una serie televisiva con più sequel annuali. La saga dei Corleone si tramuta nella saga dei capiclan di Scampia, ispirati dalle storie scolpite negli atti giudiziari e raccontate dai giornali, della famiglia Di Lauro, dei loro avversari Amato-Pagano, per poi aggiornarsi con il fenomeno dei clan del centro storico dei giovanissimi ed effimeri boss partoriti dai clan Mazzarella e Giuliano, fondatori dei gruppi dei Buonerba e Sibillo. La cronaca criminale grande soggetto per sceneggiature. Fenomeno non nuovo, che “Gomorra” perfeziona. E scrivono ancora una volta Nicaso e Scalia: «Se il Padrino è stato tradizionalmente considerato l’archetipo della mitizzazione eroica della mafia, è altrettanto vero che nella saga di Coppola, vera e propria enciclopedia delle narrazioni mafiose, è possibile trovare il punto di partenza anche per rappresentazioni alternative».

C’è sempre un caposcuola e un ispiratore. Ancora nel libro “Il mito di Cosa Nostra”, si legge: «Puzo e Coppola, che hanno studiato la vera mafia per rappresentarla, sono diventati a loro volta oggetto di studio e di ispirazione per i riti, i comportamenti, gli atti di violenza di quegli stessi mafiosi». Un’analisi che rimanda a tanti, e spesso ripetitivi, dibattiti sugli effetti di “Gomorra” e della sua narrazione. Purtroppo, anche in questo caso, in Italia non si scopre nulla di nuovo. 

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