La prima volta di Sasà Capobianco:
«Quando andò in fumo
il mio primo giradischi»

La prima volta di Sasà Capobianco: «Quando andò in fumo il mio primo giradischi»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 11 Gennaio 2020, 20:00 - Ultimo agg. 12 Gennaio, 12:30
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Quando gli regalarono il primo giradischi, Sasà Capobianco - soprannominato The Doctor; per un ventennio, signore dell'etere e delle notti napoletane, pioniere dei disc jockey, creatore di quel fenomeno che fu Radio Kiss Kiss - non stette più nella pelle. Era il 1964, aveva dieci anni e in città non esisteva ancora neanche un negozio di alta fedeltà: per acquistare questo genere di oggetti, bisognava andare alla Duchesca. Lì, c'era il mercato americano, si vendeva di tutto: i primi blue jeans, i Lee, i Levis, i Wrangler, le camiciole hawaiane, il burro di arachidi, gli snack, le sigarette, e anche i primi apparecchi per ascoltare musica.

Lei voleva un giradischi.
«L'avevo sempre desiderato. Mi piaceva la musica e mio padre decise di farmi un regalo. Così, andammo alla Duchesca e lo comprammo. Ricordo ancora quel formato a valigetta, portatile, bellissimo. Non mi sembrava vero e non vedevo l'ora di metterlo in funzione».

Finalmente cominciò la sua attività di dj.
«Macché. Non avevamo pensato che quell'apparecchio era tarato sul voltaggio americano mentre da noi la corrente era a 220: appena lo accendemmo andò in fumo. Che dispiacere».

Poi, però, un altro giradischi lo ha comprato.
«Ero patito. Quando uscirono le prime cassette, penso fosse il 1968, il divertimento di noi ragazzi era quello di registrare le canzoni dalla radio, e creare vere e proprie selezioni musicali, che ci poi ci scambiavamo. Erano anni in cui ogni garage diventava un localino: due registratori a cassette e partiva la compilation. In quel periodo dormivo pochissimo.

Come mai?
«Ascoltavo Radio Luxembourg, l'unica che facesse sentire qualcosa di decente per noi appassionati, sulle sue onde viaggiavano chicche beat e rock che in Italia non era facile sentire. Era il principale modello di riferimento per tutti gli aspiranti deejay degli anni '70».

Passava la notte ascoltando la radio, insomma.
«Non c'erano alternative. Luxembourg trasmetteva a onde medie, si riusciva a captarle solo da una certa ora in poi».

La sua prima volta ai piatti, per usare il linguaggio dell'epoca?
«Cominciai tra amici: al Saturday's Club in via Partenope, ma la prima vera esperienza fu nel 1971 allo Schiribizzo - tavernetta di uno dei migliori hotel napoletani, il Royal. Passai quindi allo Zeppelin, storico night di via Manzoni, e poi allo Shaker».

Altri tempi.
«Si sentiva musica, non rumore. Io amavo il rock con venature dolci: Genesis, o Emerson, Lake & Palmer. La scaletta era fissa: tre balli veloci, tre shake, quattro lenti. I brani giravano fino alla fine, potevi soltanto cambiare velocemente».

La chiamavano The Doctor, il dottore.
«Per forza, studiavo medicina».

Come faceva a conciliare l'attività musicale con l'università?
«Mi affaticavo, ma era tale la passione, che alla fine la stanchezza manco la sentivo. Mi laureai regolarmente con 110 e lode, e presi la specializzazione in oculistica col massimo dei voti, rassicurando così mio padre, all'inizio contrarissimo al mio hobby».

Musica e medicina, binomio interessante.
«Avevo un rito: prima di sostenere un esame, dovevo assolutamente ascoltare dieci minuti di musica ad altissimo volume. Sembrava dovesse venire giù il palazzo. E poi sempre lo stesso brano: Theme one dei Van der Graaf Generator, che mi caricava e portava bene. Per una ventina d'anni, ho condotto due vite parallele: medico di giorno e dj di notte».

Non si è fatto mancare niente.
«Se è per questo, ci misi dentro anche la radio».

Andiamo con ordine. Che anno era?
«1976, la discoteca Kiss Kiss già c'era. Il proprietario, Ciro Niespolo, mi chiamò e mi parlò della sua passione per la radio. Perché non la facciamo? dissi io. E la facemmo. I soldi da spendere non mancavano e noi, ritenuti volontari, per qualche anno non guadagnammo una lira. Il primo stipendio, in realtà un rimborso spese, lo presi dopo sei-sette anni».

Di che cosa si occupava?
«Ero direttore dei programmi, organizzavo i palinsesti, gestivo la parte tecnica e i rapporti con gli artisti. Poi, avemmo l'intuizione di collegare l'emittente alla discoteca, il sabato e la domenica, e trasmettere in diretta. La gente amante di quel mondo passava le ore incollata alla radio, registrava le puntate, faceva le proprie classifiche dei dischi».

Grande successo.
«Sulle nostre frequenze, si collegavano in sette-ottocentomila».

Certo, non avevate concorrenza.
«Vero, non esistevano network o alternative nazionali. Radio Montecarlo si prendeva solo sulle onde medie e la qualità di ascolto era pessima. In ogni caso, eravamo bravi. Si lavorava sodo. Ancora mi torna in mente la sera del terremoto».

23 novembre 1980. Dov'era?
«In console al Kiss Kiss, in discoteca c'erano circa mille persone. Sul piatto suonava Long Train Running dei Doobie Brothers, il disco saltò. Ricordo che ero in ginocchio e cercavo l'Lp che avrei dovuto mettere dopo. Mi alzai di scatto, la testa mi girava, vidi mille persone che ondeggiavano da un lato e dall'altro».

Che cosa fece?
«Accesi il microfono, invitai la gente a muoversi con calma e a dirigersi verso le uscite di sicurezza. Attimi di puro panico, per qualche istante pensai al peggio. Invece, per fortuna, riuscimmo a gestire tutto al meglio».

Ancora un ricordo: il primo 45 giri che ha comprato.
«Il mondo non si è fermato mai un momento. La notte insegue sempre il giorno. Ed il giorno verràààà... Jimmy Fontana, avevo 10 anni, l'ho consumato a furia di ascoltarlo».
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