Parlo di me, Tommaso Primo: «Canto strada e periferia, perché sono le mie spine»

Il cantautore: la politica? Un fallimento

Tommaso Primo
Tommaso Primo
di Angelo Carotenuto
Sabato 18 Marzo 2023, 08:29 - Ultimo agg. 15:55
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Silenziosamente, senza manifesti, Napoli sta aggiungendo uno strato nuovo allo spessore della sua scena artistica e pop. Una riscrittura generazionale che fiorisce dal pantheon Anni 80 e lo aggiorna. Ha cominciato il cinema con Paolo Sorrentino, a trent'anni da Massimo Troisi. Il calcio sta consegnando un nuovo idolo georgiano ai ragazzini che non hanno mai visto l'Argentino. La musica è in ebollizione, come segnalava una settimana fa Giorgio Verdelli.
Tommaso Primo è tra gli artefici del nuovo panorama. Ha 32 anni, un bellissimo accento e una pronuncia antica. Fa sold-out con il suo spettacolo La sacra arte della canzone napoletana. Ha scritto un album, Favola Nera, dove si avverte un'adesione ai film di Capuano e al teatro di Viviani. Storie di ultimi, dal ventre, dalle periferie, come il suo pezzo più toccante: Cavalleggeri è New York nella testa di Laura. Di lui si dice che abbia scritto la prima canzone a 13 anni. «È vero, si chiamava Carmela, poi l'ho cancellata perché me ne vergognavo».

Chi le ha dato la prima chitarra?
«Sono orfano di padre dall'età di 8 anni. Sono cresciuto con persone molto più grandi di me nel ristorante di nonna, a Marechiaro, tra una passione per Sergio Bruni e i cantanti di giacca che venivano per i matrimoni. Nonna raccontava di quando Mastroianni arrivò con Jack Lemmon a provare alcune scene del film Maccheroni in cucina. La prima chitarra la devo a Ciro, uno dei dipendenti, malato di cuore. Aveva trent'anni, io dodici, lui suonava e mi accompagnò a via San Sebastiano per comprarne una, la prima Eko, fu molto poetico. Me la facevo accordare una volta a settimana. Una chitarra classica. Non ne ho mai suonate né di acustiche né di elettriche».

E come faceva con quel manico così largo e le corde così dure?
«Non le corde Savarez, sono morbidissime. Non sono un musicista dalla visione lunga, casomai larga, cerco di catturare la dottrina da chi ne possiede più di me. Mi guardo attorno, quello che vedo lo metto nella musica. Mi piace scrivere storie, la forma più diretta che conosco è la canzone.

Quando ho capito che non sarei potuto diventare Spielberg, mi sono concentrato sulla chitarra. Ho cominciato ascoltando James Taylor, Caetano Veloso, Pino Daniele, e la musica giapponese che viene dal mondo degli anime, cose ipermelodiche».

Con la melodia si fa tradizione o innovazione?
«Credo ci sia prima di tutto la necessità di fare arte, qualcosa di più grande di una carriera e del successo. Si fa arte con la tradizione e con l'innovazione, Napoli ne ha regalata tanta e continua a farlo, a volte finanche con un pezzo paraculo, ma pure quella è una forma di espressione, il racconto di un frammento di sé che arriva da una città martoriata, dove non sappiamo quale sia il nemico, cosa ci rende sgarrupati».

Dice che la musica è supplente della politica?
«Dico che alla politica resta solo l'esecutivo. Sul territorio non ha quasi più potere, soprattutto sul nostro, dove è stata un continuo fallimento da quando La Capria scriveva degli scempi dentro e attorno alla città. Mi pare che la politica non abbia coraggio, la musica sì. Ne hanno le nuove generazioni, spesso criticate. Il patrimonio melodico e poetico è enorme. Le nuove leve denunciano le conseguenze di una deriva. La musica di Napoli è diversa perché è un grido di resistenza. Siamo figli di una sirena che cantava, un microcosmo che dispone di un tesoro di un milione di brani in lingua napoletana, dalle villanelle del 400 alla trap, all'urban, al neapolitan power, al folk, per non dire delle opere di Paisiello. Una città che riesce a essere più ampia e vasta dei km quadri su cui si espande. Per una scena del genere, bisogna andare in Brasile, in America o in Inghilterra».

Quanta storia della canzone napoletana ha studiato, per arrivare alla sua sintesi?
«Tanta. In Cavalleggeri c'è una citazione armonica di Federico Salvatore e mi sono imposto per avere un arrangiamento pieno, oltre gli schemi classici di chitarra e voce. Volevo che si sentisse il suono metallico che fa la pioggia in periferia, come in una scena dell'anime Evangelion, quando lui prende lei ubriaca sulle spalle e parte Fly Me To the Moon di Frank Sinatra. Volevo davvero unire Cavalleggeri a New York. Del resto, credo di essere stato l'unico nella canzone napoletana ad aver inciso un disco su un viaggio nello spazio. Forse è la parte più vera di me».

Perché si decide di cantare la strada e la periferia al posto del mare?
«Perché sono le mie spine e me le porto dentro. Hanno cercato di mettermi l'etichetta di borghese perché sono di Posillipo, ma Posillipo ha più 41 bis di Casal di Principe. Marechiaro è un borgo di pescatori. Non sono come i rapper che avvertono l'esigenza di mostrare la loro provenienza. Io metto la camicia e i tatuaggi li nascondo. Quando sei solo, sei solo anche a Posillipo. Ho dovuto affrontare la tossicodipendenza di uno zio e non è stato facile. Canto contro ogni forma di cedimento al machismo e di concessione al camorrismo. Oggi capisco l'atto rivoluzionario che esisteva nell'opera di Troisi, nella tenerezza solenne con cui ha smontato gli stereotipi, vecchi e nuovi. Credo che insieme a Viviani e al primo Pino Daniele, sia stato l'artista che ha saputo unire l'alto e il basso».

Cosa c'è di denigratorio nell'aggettivo: borghese?
«Borghesia è una parola importante. Quando nel 1799 questa città ha vissuto l'esperienza della Repubblica, il suo sterminio ha inciso sul declino vissuto nel secolo dopo. Tagliare la testa ai borghesi non è stato lungimirante, e lo dico da ammiratore di Fidel Castro. Da Vincenzo Striano a Salvatore Palomba, torna ogni tanto pure la definizione di plebe, la Napoli lazzara. Siamo l'unico posto al mondo dove i ragazzini hanno una connotazione: sono scugnizzi. Ma se Napoli rimane Napoli è anche per questa porzione che resta attaccata al magma, al concetto primordiale di umanità. Il magma ha una grossa influenza sulla personalità. Un giorno il nostro misticismo andrebbe analizzato dal punto di vista scientifico. L'energia non è sempre solare. Qualcosa di buio nell'animo resiste. E qui si muore tanto, da giovani, per sbaglio, in maniera ingiusta».

Lei è credente?
«Leonardo diceva che la musica è l'architettura dell'invisibile. È la forma di metafisica più tangibile che esista al mondo. È capace di fare miracoli. È la presenza di Dio, se esiste. Di Dio, Buddha, Allah o di Yemanja, a cui sono devoto. Ho scoperto che nella Santeria esiste questa dea dal Velo Azzurro che protegge i figli delle vittime di incidenti in mare, o chi sul mare vive, guardando la luna e partorendo arte. Assomiglia alla Madonna di Marechiaro. Una Madonna nera l'ho tatuata sul braccio».

Chi sono le Ragazze di via Argine che hanno partecipato a un suo disco?
«Vivono nel ventre oscuro della città. Le ho incontrate a Gianturco, dove nell'aria s'avverte un odore indefinibile, roba che brucia nei paraggi e tutto avvolge. Mi guardavano come uno che voleva rubare il loro tempo. Ho conquistato la loro amicizia. Portano tutte lo stesso nome, Fortuna. Un conto è parlare, un conto è vedere. Ho scoperto davvero la camorra, quando dall'autobus ho visto il primo lenzuolo bianco a terra su un cadavere, andavo al liceo, la prof notò che ero sconvolto. Credo che oggi sia lo stesso per la guerra. Ecco perché sento l'esigenza di partire, andare, vedere. Vedere la guerra, sì. È un viaggio che sto mettendo in conto. Una delle ragazze di via Argine mi fece piangere chiamandomi Tommaso the Sun. Lo Stato sa che non sono lì per scelta, non sono escort, sono schiave del sesso. È incredibile come non si riesca ad aiutarle».

È sbagliato pensare a un riferimento a De André?
«Anche lui era un borghese, no?».
 

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