Raf, parlo di me: «Mi piace l'amore sofferto e se una storia finisce le canzoni vengono meglio»

«Sono andato via dalla Puglia a 17 anni ma quando torno gli odori nell'aria e i sapori sono uguali»

Raf in concerto
Raf in concerto
di Angelo Carotenuto
Sabato 1 Aprile 2023, 10:00
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Raffaele Riefoli in arte Raf è uno dei rari artisti che ha visto un suo titolo diventare slogan. Quando ci domandiamo cosa resterà di qualcosa, il pensiero corre ai suoi Anni 80. Ha vinto Sanremo come autore («Si può dare di più», 1987) e due Festivalbar da interprete («Ti pretendo» nel 1989 e «Il battito animale» nel 1993). Diciassette anni fa ha scritto un pezzo («DIMENTICA») col quale faceva venire voglia di lasciarsi, per sentire più forte il dolore nello stomaco. Ora parte dal 26 aprile con un nuovo tour, «La mia casa»: a Napoli il 23 maggio. Un tour che sarà un libro, un pezzo, un album. Dove per casa s'intende il pianeta, «la casa di tutti noi - dice - che meriterebbe più attenzione. Dovremmo convincere i politici a intervenire in modo urgente sul cambiamento climatico. Ci sono scenari apocalittici, non per i prossimi 100 anni, ma molto prima». 

Hanno l'aria di essere parole da padre. Come se l'è cavata stando sempre in giro?
«C'è chi non ricorda i compleanni dei bambini. Io sono stato un cantante anomalo. Ho rinunciato a dei tour in Sudamerica e a molto altro per stare in famiglia. Credo che i miei figli non si siano accorti che il papà era popolare nella musica fino ai loro 9-10 anni, gliel'hanno detto i compagni in classe. Hanno vissuto in una casa come tante altre, per volontà mia e di mia moglie. Sono andato alle loro recite, ho scattato le foto, abbiamo giocato insieme. Nel momento in cui metti in conto la paternità, dev'essere una dedizione responsabile che dura per la vita».

Che musica ascoltano i suoi figli?
«Mia figlia ha 25 anni, vive a Miami, nella capitale della cultura latino-americana e sente cose orientate verso quel tipo di hip hop.

A me dopo quattro pezzi di Bad Bunny viene il mal di testa. Mio figlio ascolta hip hop americano, ma nella post-adolescenza sta allargando il panorama. Adesso che ha superato i vent'anni, comincia a evitare il senso unico della trap, per fortuna. Sono cresciuti bilingue. A me piacerebbe che ascoltassero i generi più diversi».

E dei pezzi del papà cosa dicono?
«Non ne abbiamo parlato più di tanto. Non so se l'hanno fatto per non darmi un dispiacere, non mi hanno mai criticato, anzi di nascosto ho scoperto che nelle loro playlist qualche pezzo mio l'hanno messo».

Raf, dov'è casa propria?
«Per me, dove sento un richiamo alle origini. Sono andato via dalla Puglia a 17 anni, ne sono trascorsi di più, tutto è cambiato, ma quando torno gli odori nell'aria e i sapori sono uguali. Casa è dove si agita qualcosa dentro, succede anche a Firenze, dove mi sono trasferito giovanissimo. Succede a Roma, a Napoli, posti dove sono a mio agio e dove ogni tanto non vedo l'ora di fare un salto, specialmente quando sto da un paio di mesi in America e sento l'esigenza di vedere una piazza, un centro storico, un palazzo».

Com'era la casa della sua infanzia?
«Umile. Papà era dipendente delle saline a Margherita di Savoia, dove il rosso del tramonto piombava su questa striscia di terra e faceva riflessi che sui più sognatori tra noi avevano un impatto straordinario. Un posto di pescatori, di operai, di grande umanità, di accoglienza. Ci si aiutava senza chiedere chi sei. Quando vedo persone che lasciano la propria casa, scappando da qualcosa, una guerra, una carestia, penso che non si possa negargli il desiderio di una condizione diversa, di vivere dove vogliono sulla Terra. È vero che bisogna evitare ai migranti di essere intercettati da organizzazioni criminali, ma la mia natura non mi consente di negare a un essere umano un approdo, un porto sicuro. Se mai la musica potesse contribuire a risolvere problemi così enormi, sarebbe fantastico».

Come ha avuto la prima chitarra?
«Prima ne ho avuta una di plastica da piccino, insieme con un tamburo, a casa mia ci sono stati davvero i giocattoli di latta, compreso il fucile con un colpo solo e il tappo di sughero. Fino a 10 anni non avevo fatto vacanze. Quell'estate andammo sul Lago di Garda da un cugino e lui aveva imparato a suonare la chitarra, così la nonna al compleanno mi comprò un'acustica. Costava 9mila lire, era terribile, fatta di legno compensato, tenuta insieme chissà come, suonava da schifo, per me era un gioiello».

Sono più belle le canzoni per un amore che nasce o per uno che finisce?
«Io sono innamorato dell'amore sofferto, dei poeti maledetti, dei registi della nouvelle vague francese, di tutte queste ambientazioni da nostalgia per una storia finita che non finisce mai. La fine affascina. La sofferenza ispira. Quando sei felice, te la godi e in genere si scrive di meno».

Le è dispiaciuto aver scritto «Si può dare di più» e non averla cantata a Sanremo?
«Era previsto che la scrivessi per altri. Doveva essere la risposta italiana a Band Aid di Bob Geldof. Caterina Caselli voleva mettere insieme un certo numero di cantanti per un'operazione simile. Non ci riuscimmo, forse perché in Italia non c'è Bob Geldof. Allora la portammo al festival. Caterina mi chiese se volessi cantarla, dovevo decidere se chiudere con la mia casa discografica francese e passare a pezzi italiani, oppure se tentare ancora un disco con la techno-pop inglese. Non chiusi e lasciai il pezzo a Tozzi, Morandi e Ruggeri».

Che differenza c'è tra Sanremo e il Festivalbar?
«Al Festivalbar mi sono sempre divertito tanto, a Sanremo mai. Sanremo getta nell'ansia, tutti lavorano per aggiungere tensione, come fosse l'ultima cosa che farai nella tua vita. E poi non è mai andata veramente bene con le giurie. Sarà stato per il modo di votare, non sempre limpido. Non dico che cambiassero le carte in tavola, tranne forse in qualche caso storico, ma ho la sensazione che piccoli aggiustamenti sui risultati ci siano stati. Questo penso, e non ho problemi a dirlo. Al Festivalbar, andavi alla finale dell'Arena e sapevi cosa aspettarti. Se il pezzo si era sentito nei juke box e alla radio, vincevi. O il primo premio o un altro. “Cosa resterà” a Sanremo si è piazzato in media-bassa classifica. Al Festivalbar non poteva succedere che “Vita Spericolata” arrivasse ultima».

Concato ha detto che è stufo di cantare «Fiore di maggio». Anche lei ha crisi di rigetto?
«Un vero e proprio rigetto no, ma penso a certi pezzi d'inizio carriera, quando i testi li scriveva ancora Giancarlo Bigazzi. Discutevamo di un concetto, lui buttava giù le parole e si riservava un ruolo d'autore. Una volta fu motivo di un diverbio, la canzone è associata a chi la interpreta. Così, ogni tanto mi trovo a cantare cose di cui condivido il senso generale, non il modo in cui è stato espresso, con un linguaggio che non sento mio. Ecco, in alcuni casi, quando arriva una certa frase, mmm, eviterei».

Me ne dice una?
«Per esempio, a un certo punto in “Inevitabile follia” dico: Quante volte dormirei sulla tua dolce prateria».

Lei dice che la dolce prateria...
«Eh. O lo dici dritto, esplicito, oppure la prateria, dai, è quella cosa lì. A cantarla oggi faccio fatica».

Non si possono cambiare le parole?
«No. Le parole vanno contestualizzate. Quando ho rifatto “Ti pretendo” nella versione con Gue Pequeno, North of Loreto e Bassi Maestro, ho letto dei tweet che mi accusavano di istigazione alla violenza sulle donne. Una cosa pesante, estranea al senso della canzone, un gioco tra due amanti, dove peraltro è lei che conduce. Quando uscì, nessuno si sarebbe sognato di attribuire una relazione con i femminicidi. È un pezzo su un corteggiamento. Se non si può giocare più sul corteggiamento, siamo messi male».

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