Daria D'Antonio, parlo di me: «Io fotografia solitaria, nel cinema ho scoperto la bellezza del gruppo»

«Una fotografia è la testimonianza di un tempo, non solo dell'anima, la puoi anche toccare. Sì, c'è nostalgia, ma che fa?»

Daria D'Antonio
Daria D'Antonio
di Angelo Carotenuto
Sabato 8 Aprile 2023, 10:00
7 Minuti di Lettura

Il bianco racconta la purezza di zia Patrizia. Le macchie di giallo sono quelle delle case e dei palazzi Anni 80. Quando invece nella grotta Fabietto Schisa si sente chiedere se ha qualcosa da raccontare, allora il colore si fa quasi da parte, si sottrae, sembra pudore. Daria D'Antonio è la lente e la luce di “È stata la mano di Dio”. Ha vinto il David di Donatello e il Nastro d'argento come direttrice della fotografia per il film di Paolo Sorrentino, candidato all'Oscar nel 2022. Ha sedici anni di cinema alle spalle, da allieva di Luca Bigazzi, al debutto con Pietro Marcello, fino ai lavori con Marco Segato e Michela Occhipinti. Dice che raccontare un personaggio attraverso un taglio di luce significa «raccontare soprattutto l'atmosfera di cui fa parte, la storia, il suo benessere o il disagio che vive in un luogo». È appena tornata dal set del film d'esordio di Umberto Contarello e dalla lunga lavorazione di “Super Sex”, la serie su Rocco Siffredi, con Alessandro Borghi e la regia di Matteo Rovere, Francesco Carrozzini, Francesca Mazzoleni.

Dove si trova la luce dei film?
«La teoria non l'ho studiata. Ho letto i manuali, certo, ma non ho frequentato scuole. Ho imparato questo mestiere facendolo, dall'esperienza, dall'attenzione alle cose che ti accadono intorno, dalla disposizione a mettersi in ascolto degli altri. Il cinema non è solo teoria. Per me il fascino di un set continua a esistere nell'idea che tante persone lavorino intorno a un progetto unico. Ogni volta devi un po' dimenticare le cose che hai fatto, mettere da parte le tue sicurezze, trattenere le esperienze emotive, senza smettere di ricercare.

Quello che chiede una storia nuova ha la precedenza su quello che ti viene bene».

I direttori della fotografia all'alba del cinema erano ritrattisti o giornalisti viaggiatori. Secondo lei perché?
«I ritrattisti cercavano l'essenza delle persone, i viaggiatori quello che c'era intorno, per documentare. È un lavoro che si fa con un'attitudine all'empatia, con il piacere per le relazioni, non solo per la tecnica. Una direttrice della fotografia ha un gruppo di lavoro che deve saper coinvolgere, anche trascinare, dietro un'idea. Io credo di essermi formata più con la letteratura che con il cinema. Leggendo».

Leggendo cosa?
«I francesi, i russi, Pavese, Calvino. Ogni libro consente di costruirsi immagini. Credo che il colpo di fulmine con la fotografia sia nato dall'attrazione per la camera oscura. Papà ne aveva una, stampava in modo amatoriale. Ho cominciato a provare, sbagliando all'inizio gli acidi, le temperature, i tempi. Ma chiudersi lì dentro, senza parlare con nessuno, era bellissimo. Mi dava pace. Ed è stato bellissimo, poi, passare da una creatività di solitudine a un'altra di gruppo. In principio su un set non sapevo neppure chi facesse cosa. Mi sono innamorata dell'opportunità di viaggiare, di spostarsi in gruppo, di fare vita comune, trovare una famiglia di fantasia. Lasciarsi dopo ogni lavoro era sempre un po' una pena da soffrire, come una continua fine d'estate».

E adesso che non stampa più?
«Ho smesso di stare da sola, anche se mi piacerebbe trovare uno spazio per creare cose nuove, dove coltivare il lato artigianale del cinema. La fase più bella di un film per me rimane la preparazione, trovare gli obiettivi, scegliersi le fonti, il tono di un'ispirazione. La rete offre opportunità sorprendenti, ultimamente ho scoperto la pittura di Patrick Proctor, un inglese degli Anni 60. La fotografia è la mia passione vera, da ragazza ero chiusa, molto ideologica: sai quando vuoi fare l'antagonista? Ho scartato l'idea di lavorare nella moda perché pensavo fosse un mondo futile, e invece ora le foto più belle vengono da lì. Temevo di non essere tagliata per la vita di frontiera dei reportage. Il cinema è stato un incontro».

Nel discorso ai David, ha ringraziato i suoi genitori per la libertà e l'etica del lavoro. La libertà per cosa?
«Di fare le mie scelte, anche attraversando la sofferenza e passaggi difficili. Sono cresciuta nel più grande senso di libertà, con dei genitori anticonformisti. Non ricordo un solo momento in cui mi sia stato proibito qualcosa. Mia sorella Daniela aveva le chiavi di casa a 10 anni, io ne avevo 4 e prendevo il minibus per la scuola da sola. A 19 ho iniziato a lavorare. Mi ero iscritta a Lettere, avevo saputo che ai Teatri Uniti c'erano delle opportunità. Andai a candidarmi, dopo sei mesi mi chiamarono su un set. Ho avuto l'esempio di due donne meravigliose come mia madre e mia sorella, giornalista. Quando uscì il suo primo articolo, non lo disse nemmeno a casa. Mio padre lo scoprì e si rasserenò. La vedeva tornare di notte e temeva fosse finita in chissà quale strano giro. Ma anche quando ho iniziato il mio percorso nel cinema, non ho smesso di lavorare ai tavoli nel ristorante dei miei, dove ho visto di tutto, umanità, debolezze, una finestra sul mondo».

Henri Cartier-Bresson diceva che scattare una foto è come mettersi tra la camicia e la pelle di una persona. È un gesto così violento?
«È certamente un oltraggio, ma dipende da come viene compiuto, dipende se stai cercando la verità o un punto di vista diverso. Bresson puntava alla verità, il cinema in teoria indaga in una realtà più convenuta, diversa dal reportage. Ma quando cinquanta persone fanno una cosa insieme, la vita reale entra pure nel cinema, inevitabilmente, e la lasci entrare».

Il suo è anche un lavoro di velocità. Come si concilia con i tempi di un'artista?
«L'aspetto che mi affranca da questa responsabilità è che io non mi sento un'artista. Cerco di essere veloce per non togliere tempo ad altri. Ti prendi quello necessario, senza sottrarre energie al gruppo. Sono cresciuta con Luca Bigazzi, rapidissimo. Mi aiuta il mio senso pratico. Il set non può essere un momento per la contemplazione, comunque non per me, casomai per chi dirige il film. Se ci mettiamo tutti a pensare, non si finisce più. Si fa la scelta migliore nel minor tempo possibile. Esiste una responsabilità verso i soldi investiti, che sia mezzo milione o venticinque. La correzione del colore è un momento di creatività, ma non per stravolgere la linea concordata e un percorso collettivo. Non si cerca la bella fotografia, esiste la fotografia giusta per una storia. Se sei veloce, è meglio. Essere decisi e convinti, fa bene all'umore generale. Non tutti si possono permettere di vacillare. Altrimenti si va a vento».

Che luce ha Napoli?
«Diversa da quella più diffusa. Non è una città colorata, non più di Praga, non è solare, anzi, la trovo scura, anche cupa, con degli sprazzi. Ma è l'unica città che non saprei riassumere, forse per le mille luci delle esperienze personali».

Chi l'ha raccontata meglio?
«Al cinema Francesco Rosi. Anche Paolo la racconta bene, un racconto suo, personale. In letteratura La Capria, pure Rea, Patroni Griffi in “La morte della bellezza”. Un libro splendido è di un americano, “La Galleria” di John Burns. È difficile raccontare Napoli. Troppo densa. Il mio più grande desiderio è svegliarmi un giorno senza conoscerla, trovare qualcuno che mi porti là da estranea, per stupirmi».

Daria, nelle fotografie c'è la nostalgia?
«Forse c'è più malinconia. Una fotografia è la testimonianza di un tempo, non solo dell'anima, la puoi anche toccare. Sì, comunque sì: c'è nostalgia. Ma che fa?».

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