Maurizio Careddu, parlo di me: «Mare fuori ha successo perché parla di redenzione e di seconda chance»

«Sono orgoglioso di aver segnalato al regista Silvestrini la Piscina Mirabilis, un posto meraviglioso come tanti nell'area flegrea, sottovalutati»

Maurizio Careddu
Maurizio Careddu
di Angelo Carotenuto
Sabato 15 Aprile 2023, 10:00
7 Minuti di Lettura

Il monitor sarà grande una ventina di pollici. Qui dentro passa un pezzo della rappresentazione di Napoli in Rai. Dove una volta c'era un posto al sole, adesso c'è il mare fuori. Le parole di Raffaele, portiere di Palazzo Palladini, hanno abitato per un po' tra i file dello stesso computer in cui ora si muovono Filippo o chiattillo e Carmine Recano. La scrivania di Maurizio Careddu non è distante dalla piazza romana del concertone del Primo Maggio, «e forse il mio primo legame con Napoli - racconta - nasce dalla musica: Bennato, Pino Daniele, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, gli Almagretta». È stato tra gli sceneggiatori della più longeva serie italiana e adesso tra gli autori dell'ultimo fenomeno della serialità, passando per “La Squadra” e il tv movie “Diversi come due gocce d'acqua”, pure ambientato a Napoli. La quarta stagione di “Mare Fuori” sta per prendere forma, tra un mese si va sul set.

Quanto è diverso raccontare la Napoli dolce della soap opera e questa aspra del carcere minorile?
«La Napoli di “Un posto al sole” non è senza spigoli. Quello che viene chiamato social issue c'è sempre stato. Ricordo la polemica feroce che vivemmo quando fu ucciso il personaggio della moglie di Raffaele: lui aveva assistito a un omicidio di camorra. C'erano tutti gli ingredienti di genere, storie d'amore, figli contesi, lotte di potere, ma non siamo andati al risparmio sulla criminalità organizzata. A quel tempo si diceva che Palazzo Palladini fosse il posto dove tutti avrebbero voluto vivere. Ecco, questo non si può pensare dell'Ipm».

Il lavoro di documentazione è stato difficile?
«L'idea originaria si deve a Cristiana Farina. Teneva un work shop di scrittura a Nisida.

La ricerca è stata lunga, impegnativa, anche dal punto di vista emotivo. Abbiamo incontrato ragazze e ragazzi negli istituti, altri affidati alle associazioni che seguono il reinserimento, come Scugnizzi con la Pizzeria dell'Impossibile, dove imparano il mestiere e tre volte a settimana preparano il pranzo agli indigenti. Lì siamo riusciti a dialogare in modo più intimo. In carcere senti l'aria che respirano e il senso di privazione, in una struttura costruita apposta, sebbene su un promontorio, sul mare. È questo lavoro di ascolto che ha portato molta verità dentro il racconto».

Cosa crede che piaccia fuori Napoli?
«Credo il concetto di speranza, la messa a nudo della difficoltà nei rapporti tra genitori e figli adolescenti. Volevamo raccontare un istituto dove qualcuno offre un futuro a dei ragazzi che hanno sbagliato, una seconda occasione per chi ha trovato forse più sbarre fuori che dentro. Una serie che parla di redenzione, lo fa a tutti. Lo fa dal punto di vista dei coming of age, ma riguarda anche gli adulti, riguarda noi che ricordiamo le nostre scemenze, cosa abbiamo rischiato, gli sforzi compiuti per arrivare dove siamo. L'adolescenza è una terribile età di mezzo in cui si decide la nostra sorte».

Sono insidiosi i cliché su Napoli?
«Molto. Il rischio di sbagliare è ovunque. Sono insidiosi i cliché sui ruoli dei camorristi, come pure quelli su una certa idea di napoletanità. Credo che alla fine Napoli soffra della stessa sindrome di Roma. Sono città così belle, che finiamo per abitarle accontentandoci, senza vedere che rischiano di imbruttire».

Quanto siamo permalosi noi napoletani nel vederci descritti così o colì?
«Succede perché i napoletani hanno a cuore il racconto della città e la propria cultura popolare. È bellissimo che i giovani si facciano custodi della tradizione, penso alla musica: a Roma quanti ragazzi ascoltano Lando Fiorini? Una certa permalosità nasce dalla convinzione che Napoli sia complessa, impossibile da raccontare venendo da fuori. Lo capisco, ma ricordo quando Muccino girò “La ricerca della felicità”, il suo primo film a Hollywood. Al colloquio disse al produttore che solo chi arriva da un altro paese, può davvero capire e mostrare il sogno americano. Penso sia profondamente vero. Lo sguardo esterno aiuta a costruire un racconto differente. È un arricchimento, ma per “Mare Fuori” ci sono anche sceneggiatori napoletani».

Cosa c'era nella libreria della sua casa da adolescente?
«C'era una letteratura molto classica, Moravia, la Bellonci, gli americani. Mio padre leggeva saggi di storia, lo ricordo di sera in poltrona dopo cena coi suoi libri, abbonato a “Storia Illustrata”. Non so da dove venisse questa passione. La mia è una famiglia borghese, entrambi i genitori farmacisti, mio fratello medico dentista. Mio nonno era venuto a Roma dalla Sardegna, avendo avuto in concessione proprio una farmacia negli Anni Trenta».

E lei come ha sentito le storie nella testa?
«C'è qualcosa di misterioso che lavora dentro, arrivano e scopri la voglia di raccontarle, di vivere di quello. È ubriacante decidere la vita di un personaggio, cosa dice, cosa pensa, cosa fa. Il confronto creativo in un gruppo di sceneggiatura è tra le esperienze più belle che possano capitare. Fai muovere i personaggi, accetti un punto di vista che non avevi colto, ti domandi come abbia fatto il tuo collega a pensare quella cosa sorprendente. Esistono anche dinamiche conflittuali, c'è chi mette al primo posto sé stesso e non la storia. Perciò con Cristiana Farina funziona, vince sempre la ricerca comune dell'idea migliore».

È dificile liberarsi dalle voci dei personaggi nella testa?
«Mi moglie me lo rimprovera sempre. Quando sei vicino a una consegna è difficile staccare. Resti sempre in ascolto di qualcosa, cammini e scopri di aver risolto un nodo, è arrivata un'idea per la quale non trovavi una direzione giusta. Il cervello non esce mai dalla storia che stai scrivendo».

Secondo lei, nel Paese esiste un sentimento di odio verso Napoli?
«Un po' sì. Chi segue il calcio, lo vede. Quando andavo allo stadio negli Anni 80 c'era un bellissimo gemellaggio tra Roma e Napoli, scoprire ora che si odiano è un grande dispiacere. Il fenomeno dell'immigrazione Anni 60 ha certamente provocato conflitti tra due modi di vivere e due culture differenti. L'Altro è sempre pericoloso, il diverso mette paura, spinge alla diffidenza. È la stessa logica che adottiamo verso gli immigrati. Sì, un'ostilità la sento, nelle frasi fatte che danno fastidio a me, romano, immagino ai napoletani. Ma l'ironia è la risorsa che salva Napoli».

Quanto è diverso l'umore di Napoli da quello di Roma?
«C'è un aneddoto di Mastroianni. Passeggia per Roma e sente alle sue spalle: anvedi quanto s'è nvecchiato. È la soddisfazione di chi pensa che gli anni passano anche per il grande bello del cinema italiano. A spasso per Napoli invece lo avvicinano e gli dicono: Marcelli', ce simmo fatte vicchiarielle. E insieme vanno a prendere il caffè. Credo che meglio di così, non si possa raccontare».

Ma La Capria diceva che la bontà è una recita. Nell'ultimo film di Sorrentino, la vicina di casa alto-atesina impreca: voi napoletani siete cattivi. A lei che pare?
«Credo che esista una differenza sociale. Il napoletano del popolo mi pare sempre spontaneo, vero. Certo, qualcuno cerca il centro dell'attenzione e recita una parte, ma è così ovunque. Nella Napoli bene, ogni tanto mi pare si incontri meno apertura. Non so se per superiorità intellettuale».

Lo sa che adesso si viene a Napoli per vedere i luoghi delle serie tv?
«Io vado orgoglioso di aver segnalato al regista Ivan Silvestrini la Piscina Mirabilis, un posto meraviglioso come tanti nell'area flegrea, sottovalutati. L'ho scoperta grazie a un'amica. Ho letto che il sindaco di Bacoli è felice: c'è un boom di visite. È bello se la serialità fa conoscere posti trascurati. Ora ne cerchiamo altri». 

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