Giovanni Ludeno, parlo di me: «La vocazione di attore l'ho scoperta in colonia»

«Ho fatto con Martone Il sindaco del rione Sanità, uno dei suoi testi più densi»

Giovanni Ludeno sul set
Giovanni Ludeno sul set
di Angelo Carotenuto
Sabato 29 Aprile 2023, 10:00
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Nello spazio di una birra con Giovanni Ludeno, possono entrare una poesia di Boris Pasternak e la scena di un film di Massimo Troisi. Due giorni fa era a Bagnoli a parlare del libro di Marco Ciriello su Maradona con gli studenti del liceo Labriola. Se avesse una macchina del tempo, forse punterebbe dritto sulla stagione del cinema anni Settanta di Elio Petri e Francesco Rosi. Tutto è politica, come accadeva intorno a Dario, il suo personaggio in 1992, 1993 e 1994, la trilogia delle serie tv su Tangentopoli. Per amore di una giornalista, finiva per fare la gola profonda dentro il pool di Mani Pulite. Ha un curriculum teatrale lungo così e uno sguardo sul suo mondo leggero, ironico, disincantato. «Ultimamente mi hanno offerto il ruolo di un medico. Un ruolo considerato importante, perché avrei dovuto comunicare al protagonista del film che s'era ammalato di tumore. Ma io, un tumore, non lo so comunicare nemmeno a un figurante».

Mi dica invece come si affronta un provino per un ruolo che si desidera.
«La forza si trova nell'abbandono di ogni tipo di aspettativa, deponendo ogni illusione di conquista. Abbandonata quella, forse, andrà tutto bene. I provini hanno una loro religiosità. Alcuni si risolvono nel mostrare il profilo destro e dopo quello sinistro. Sembra di stare in questura. È una questione di magnetismo, devi amarti molto, perché riesca bene. Amarti e farlo capire. Spesso è un processo misterioso per i registi stessi. Ti scrutano, qualcuno si arrabbia. È un rito sacro. Una volta venivano pagati, i provini».

Non più?
«Mio zio contadino dice che a famme cammina miez''a via.

Qualcuno ha cominciato a farne di finti, per farseli rimborsare dall'istituto mutualistico. Venivano pagati 180 euro, ne mettevi insieme una decina al mese e arrivavi a duemila euro. Finché all'istituto non si sono fatti delle domande, hanno scoperto il gioco e hanno chiuso il fondo. Ma il provino è un lavoro vero, tra il registro comico e lo spionaggio. C'è una tensione reale che appartiene a tutti, dal custode che ti apre la porta alla ragazza che ti porge le battute. Sono quasi più tesi loro. Il provino conserva un grande fascino nel mestiere dell'attore».

Qual è stato il suo primo lavoro?
«Per un periodo, al sabato dopo la scuola vendevo scarpe da donna al mercato. Come attore, a diciott'anni, ho debuttato nelle Coefore di Eschilo, al Teatro Nuovo, con la regia di Pierpaolo Sepe, nella traduzione di Pier Paolo Pasolini. Facevo Egisto».

Quando ha capito che questa era la sua strada?
«Non saprei, forse è una cosa indiretta, molto lontana. Forse è successo quando andavo in colonia. Vengo da una dinastia di ferrovieri, mio nonno, mio zio, mia madre lavorava in segreteria, mio padre era manovratore, staccava i vagoni e ricomponeva i treni. Come in un gioco, un compito affascinante. Oggi i treni sono un blocco intero, ogni tanto li lavano, quando li lavano. Gestire i figli era complicato. Così, quando esisteva l'assistenzialismo vero, ci mandavano in colonia. Con 20mila lire al mese, eravamo tra i partecipanti al primo turno, partenza il 28 giugno e ritorno in città a metà luglio».

E dove andavate?
«Noi in montagna, perché al mare ti abbandonavano ore e ore sulla spiaggia. Dopo due giorni ti eri stufato. In montagna invece c'erano le gite, le escursioni, la costruzione di braccialetti e collanine, lo sviluppo di fotografie nella camera oscura, e poi il teatro. Da ragazzino ero uno di quei napoletani rumorosi, eccessivo, pieno di entusiasmo. Gli animatori si ostinavano a mandarmi in scena per lo spettacolo finale, una volta mi fecero fare addirittura Dante. Ho continuato per seguire una fidanzatina del liceo che prendeva lezioni e recitava. Stiamo parlando degli anni Novanta. Ho scoperto la contact improvisation con Camillo Vacalebre, una specie di danza che chiama in causa il rapporto che hai con il corpo, come ti muovi, come ti occupi degli altri. Tenevamo delle performance in piazza Sannazaro, sui cofani delle macchine, sulle strisce pedonali mentre scattava il rosso. Una cosa ai limiti del vergognoso, a pensarci, eppure insegnava a un quattordicenne a domare il corpo, nella fase in cui gli ormoni impazziscono e non sai bene cos'è. Farebbe bene alla classe politica. Hanno il rovello della messimpiega. Si occupano di apparire bene dentro corpi vuoti, per giunta giudicando corpi veri, di chi arriva facendo i viaggi per mare».

Com'era casa Ludeno?
«Mio padre era un grandissimo lettore, mi ha passato Cent'anni di solitudine, mi ha consigliato La Ragazza di San Frediano, un libro difficilissimo per un tredicenne. Un comunista, in un periodo in cui frequentare il partito significava condivisione e scambi. Suo padre era stato contadino, democristiano, fascista per convenienza. Il regime lo aveva mandato a fare il panettiere ad Assisi, sfornava il pane per le milizie e gestiva la farina della zona. Ne metteva da parte e sfamava pure gli abitanti nei dintorni. Era diventato amico di tutti, così nel mese di agosto venivano dall'Umbria acasa nostra per salutare il vecchio don Giovanni. Mia zia, poi, legge di tutto, da Agatha Christie a Virginia Woolf e Tomasi di Lampedusa, forse perché da ragazza non poteva, se si faceva trovare con un libro in mano, veniva picchiata, doveva badare alla casa. Ha sempre avuto questa specie di furore».

I percorsi artistici in teatro sono in ombra?
«Oggi è così. Una delle più grandi ambizioni di chi vuol fare l'attore è diventare famoso, avere i like. Imparare a recitare, rapportarsi con quel che accade nel mondo: questo fa il teatro. Se ne vede poco e lo fanno in pochi, devi appartenere a un clan. Lo dico in senso buono, nel senso di correnti di pensiero, grandi comunità. Ne ho fatto tanto, e dunque sono appartenuto anch'io, sempre a gruppi con un'impostazione radicale, gruppi nei quali il palcoscenico era una faccenda sacra, ore e ore di impegno, una dedizione totale, registi che si offendevano se andavi con un altro. Questa sacralità non esiste più. È un dono di pochissimi. Come in politica, dove conta curare la propria percentuale, il seguito, il seggio. Chi litiga più nello spettacolo? Non puoi più dire mezza parola, si offendono tutti, stanno tutti a difendere la permanente. Un tempo invece si facevano delle furibonde sfuriate sfornando capolavori. Moravia e Pasolini, La Capria con Ortese: si doveva litigare. Io lo trovo sano. Mia madre da piccolo mi chiamava o polemico. Io non sapevo nemmeno cosa volesse dire. Avevo da ridire su quasi tutto. Erano forme d'amore incomprese».

C'è un ruolo o un personaggio che le sarebbe piaciuto interpretare?
«Il primo film che mi viene in mente è Le vite degli altri, ma io vorrei far ridere. Penso allora ai personaggi di Molière, a Sciosciammocca di Scarpetta, alle commedie di Alberto Sordi, in assoluto il mio preferito, totalmente dentro quello che è il pasticcio dell'essere italiano. Non userei più la parola maschera. Non c'è stato nulla di più umano di Sordi».

E le commedie di Eduardo?
«Ho fatto con Martone Il sindaco del rione Sanità, uno dei suoi testi più densi. Napoli Milionaria nel primo atto fa ridere, ma è un testo amarissimo, scritto prima ancora che finisse la guerra. Sto leggendo un libro su come gli animali guardano il mondo. Alcuni pesci, milioni di anni fa, possedevano una vista così sviluppata che il mare non gli bastò più. Si buttarono fuori dall'acqua. Ci sono intuizioni che segnano le rotte per tutta una specie. Eduardo è stato così. Ha guardato oltre». 

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