Geppy Gleijeses, parlo di me: «Io napoletano tedesco: giochiamo quando volete, si lavora quando si deve»

«Non amo la sciatteria, il pressapochismo, quel vizio di sentirsi superiori, in genere quell'atteggiamento da miezu scemo. Ma a Napoli c'è ancora umanità, ironia, la fratellanza in un estraneo»

Geppy Gleijeses
Geppy Gleijeses
di Angelo Carotenuto
Domenica 5 Marzo 2023, 12:00 - Ultimo agg. 6 Marzo, 07:11
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Nel salone della sua casa romana, Geppy Gleijeses conserva il premio come miglior attore europeo per un Domenico Soriano in Filumena Marturano di Liliana Cavani. «La convinsi a dirigere lo spettacolo davanti a una pezzogna all'acqua pazza». È stato nella compagnia di Eduardo a 18 anni, poi il più giovane capocomico d'Italia. Nell'ottobre del 75 Paese Sera diede la notizia che De Filippo rimuoveva il veto di rappresentare le sue opere, lo fece per lui, che ora porta in tasca una medaglia col volto del Maestro. Domani Gleijeses chiude le repliche di Uomo e galantuomo, «un testo - dice - geniale come una sonatina di Mozart bambino. Sono grato agli eredi per i diritti concessi a me e Armando Pugliese». Lo spettacolo mostra la vitalità della scuola napoletana, con un cast straordinario nei ruoli di supporto, da Ciro Capano a Ernesto Mahieux, Irene Grasso, Antonella Cioli, Gino Curcione, fino a Roberta Lucca, moglie di Gleijeses, madre di Ginevra, nata un anno e mezzo fa. Alla scena del suggeritore “Nzerra chella porta”: se ne cade o teatro.

«Tutta la commedia richiede un'esattezza da matematica pura, questione di orecchio. Mi aiuta aver suonato la batteria a 16 anni: Led Zeppelin, Black Sabbath, Deep Purple a matrimoni e battesimi, rincoglionendo parecchi neonati. Ero scatenato, come sul palco. Quando in compagnia con Luigi De Filippo, riprendemmo i testi di Peppino, in scena facevo il pazzo con certe controscene, lui parlava, la gente guardava me. Se oggi si permettesse un mio attore, gli direi di smetterla. Luigi sopportava. La batteria mi ha insegnato quanto deve durare una pausa, quando devi attaccare. Un giorno chiesi a Luigi come facesse Peppino a dialogare con Totò. Taranto, Fabrizi e Macario lo inseguivano alzando la voce. Peppino pensava: questo mostro prima o poi dovrà respirare. Quando respira, entro io».

 

Come si trova l'equilibrio tra la lezione di Eduardo e la tentazione di imitarlo?
«Eduardo non lo puoi rifare.

Gustav Mahler diceva che la tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco. Eduardo ce l'ho dentro, dai capelli ai piedi, lo sento in ogni momento della mia vita. Quando parlano del cattivo Eduardo, non capisco. Con me è stato dolcissimo. Odiava gli adulatori. Gli piacevano le persone belle, anche fisicamente, i giovani. Un uomo generoso. Nino Formicola si ammalò gravemente, lo mandò a curarsi a sue spese a Londra. Regina Bianchi, per me una madre adottiva, mi ha raccontato che Eduardo la aspettava, nei periodi in cui lei curava l'anemia mediterranea. Tutto è raccolto in una battuta del Sindaco del Rione Sanità, quando ad Arturo Santaniello risponde: Vuje tenite nu difetto, me site antipatico. È la chiave».

Com'era casa Gleijeses, da ragazzo?
«C'erano molti libri di mio zio Vittorio, storico, tanti di musica. Prima di dedicarsi alla carriera di avviocato, mio padre ha cantato nel 55 al San Carlo, sei recite di Madame Butterfly nel ruolo di Pinkerton, con Leyla Gencer soprano. Ha insegnato a Scienze Politiche, ma la scena deve essergli mancata moltissimo. Organizzava in casa serate canore alle quali ho visto Mario Del Monaco e Virginia Zeani, una volta Carlos Kleiber al piano. Disse a mio padre: lei sarebbe un tenore da 20 milioni a recita. Papà aveva una voce bellissima, gli mancò il coraggio. Voleva che mancasse anche a me. Mi laureai a 22 anni in Giurisprudenza e mi chiese di dare gli esami da procuratore. Non se ne parla, gli dissi. Allora te ne vai, mi rispose. Me ne andai. Mi sono mantenuto giocando a poker. Un'estate al San Pietro di Positano credo di aver sfilato un mucchio di soldi alla povera Andreina Pagnani».

Il cognome che origini ha?
«Olandesi, secondo altri francesi, e si pronuncerebbe Glesgès. Nel libro Cara Eleonora di Maria Antonietta Macciocchi, si racconta che gli ultimi oggetti di Pimentel Fonseca andarono a una tale Nicoletta Gleijeses, moglie del fratello, figlia di un capitano di ventura svizzero: negli albi di famiglia non risulta. La madre di mio padre era una duchessa Mastelloni, la famiglia di Emanuele, ministro della Repubblica partenopea. Diciamo che sono parente della Rivoluzione, ma mio padre e mio zio erano profondamente borbonici, tradendo totalmente la vocazione familiare settecentesca».

In termini alla Bellavista: Napoli è ancora una città d'amore?
«Non amo la sciatteria, il pressapochismo, quel vizio di sentirsi superiori, in genere quell'atteggiamento da miezu scemo. Ma a Napoli c'è ancora umanità, ironia, la fratellanza in un estraneo. È la città della mia grande famiglia allargata. Mio figlio Lorenzo vive là con moglie e due figlie. Ha debuttato a 9 anni con me, in Liolà, è andato a formarsi all'Odin di Holstebro con Eugenio Barba. Adesso gli do un bacio a fine commedia ogni sera, come facevamo alla fine di Amadeus - lui era Mozart, io Salieri. Un funzionario di un teatro al nord ci chiese perché facessimo uno spettacolo su un conduttore tv. Lorenzo ha il privilegio di avere una sorella di 59 anni, la figlia di primo letto della mia prima moglie, e adesso Ginevra di un anno e mezzo».

«Fujtevenne» è sempre un consiglio giusto?
«Eduardo era amareggiato. Gli avevano promesso un teatro stabile e una scuola. È stato maltrattato dalle autorità post-laurine dell'epoca. Io non sono scappato. Ho avuto la fortuna di conoscere il mondo in tournèe. Non posso sopportare l'idea del fujtevenne. Posso casomai credere che nella rivoluzione del 99 i lazzari si siano mangiati qualche cadavere della borghesia napoletana».

La famosa borghesia napoletana che ha disertato?
«Aderisco alla tesi di La Capria in L'armonia perduta. Le è stata tagliata la testa nel 1799. Due secoli dopo possiamo dire che quel fior fiore di intellettuali non è tornato. La nostra alta borghesia, con le dovute eccezioni, non ha un ruolo di guida illuminata della città né di aiuto al sindaco. Certi mali sono endemici. Io mi considero un napoletano-tedesco, di quelli che hanno disciplina ferrea e serietà. Giochiamo quando volete, si lavora quando si deve».

Paola Quattrini dice che i napoletani ridono solo dei napoletani. Perché?
«Non la vedo così. C'è un modo di scrivere l'umorismo che è solo napoletano, ma la risata è universale. Abbiamo attraversato la rivoluzione portata dalle tv commerciali. Io sono cresciuto con i fratelli Karamazov e il venerdì della prosa. Dopo è stata una corsa al ribasso. Per non perdere segmenti pubblicitari, in modo incosciente la tv pubblica ha seguito una deriva. Tuttora vedo fiction che al 70% sono prodotti di bassa qualità. Per non dire dei varietà. Ecco, questa contaminazione televisiva è diventata perdita di gusto, soprattutto da noi al sud».

Perché così poco cinema? E perché ha fatto Vacanze di Natale?
«Perché c'era Alberto Sordi nella parte di mio suocero e Ornella Muti come mia fidanzata. Sordi mi mostrava come avrei potuto recitare il marchesino napoletano in romano. Gli dissi: tu sei consapevole di essere il più grande attore vivente? Mi rispose: nel senso che nun so' morto ancora? Ora preparo una serie Netflix, regia di Corsicato, con Monica Guerritore. Cinque volte ho incontrato Paolo Sorrentino per cinque film diversi. Ero troppo bello per fare un politico nel Divo, troppo simile a Jude Law per essere il cardinale Voiello. Ci ripetiamo che prima o poi lavoreremo insieme, credo che lui sia un genio, spero davvero che accada».

Ha lavorato con tutti. Ha più numeri in rubrica lei o Minà?
«Di certo ho un'abitudine. Delle persone scomparse a me care, non cancello i numeri. Così ogni tanto scorro e rivedo i loro nomi sullo schermo. Un'altra cosa faccio. Un tempo ero un pescatore di ricci, adesso non se ne trovano più, ma vado ancora sott'acqua, e quando sto per riemergere, li ricordo, ricordo tutti i miei morti, stringo i pugni e loro mi danno la forza». 

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