Franco Pepe, parlo di me: «La mia creatività è felice, giusto osare con la pizza rispettando la tradizione»

«Vorrei dedicare il mio futuro ai ragazzi che un futuro non ce l'hanno. Può essere a Ponticelli come nell'ex Jugoslavia, in Ucraina come in Brasile».

Franco Pepe
Franco Pepe
di Angelo Carotenuto
Sabato 4 Febbraio 2023, 10:00
6 Minuti di Lettura

Se Caiazzo esiste, dice la leggenda, lo deve a una ninfa amata dal dio Volturno. Né la ninfa né Volturno avrebbero immaginato di finire dentro un passaparola mondiale per una pizza. In questo Comune della provincia di Caserta ai piedi del Monte Grande, in un anno ci sono più clienti di Franco Pepe (13 mila) che abitanti (5mila). Anche da Netflix si sono mossi. Sono venuti a raccontare la sua storia. È uno dei due italiani - con Gabriele Bonci - protagonista di Chef's Table, accanto a Chris Bianco da Phoenix e Ann Kim da Minneapolis, a Yoshihiro Imai che serve la pizza a Kyoto nello stile kaiseki, a Sarah Minnick che a Portland lavora con la portulaca e i prodotti degli orti.

Nella stanza al primo piano di Pepe in Grani, gli impasti realizzati da un mulino della Franciacorta sono conservati in certe antiche madie di legno, dietro una porta a vetro dove lavorano ancora come facevano il papà e il nonno negli anni CInquanta. Potrebbe sembrare la storia di un tempio dell'immobilismo. Invece da qui Franco Pepe è partito per la sua personale rivoluzione. 

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La pizza è tradizione o innovazione?
«La pizza è un prodotto popolare, quindi deve guardare con rispetto alla tradizione, ma deve anche saperla mettere in discussione.

Cambiano le tecniche, i saperi, le conoscenze. Stiamo al mondo per evolvere. Le radici vanno conservate ma anche corrette. Non tutto ciò che è tradizione, resta esatto. C'è chi mette ancora la foglia di basilico prima di infornare, ma quel profumo non regge a 400 gradi. È diverso se il basilico viene inserito in un contesto di sapori, per esempio con dell'origano, nella salsa».

Perché si sbaglia?
«Manca un percorso istituzionale. È un'attività senza un riconoscimento. Dagli istituti alberghieri si esce con un diploma per l'accoglienza, per la cucina e per la sala. Uno chef può fare un cammino di formazione scolastica, un pizzaiolo no. Alcuni istituti utilizzano fondi di progetti regionali, ma non esiste una vera arte bianca. Il futuro passa invece attraverso la trasmissione delle competenze. Non è accettabile che sia gestito da pseudo-associazioni che magari spingono per l'uso della tale mozzarella e di una certa farina. Prima si insegna, dopo si invita a scegliere la propria linea e la propria identità di pizza da approfondire».

In cosa consiste la differenza di stili tra pizzaioli?
«L'identità individuale e la creatività iniziano dall'impasto. In giro si trova troppo copia e incolla. Imitare non fa bene, lo diceva Gualtiero Marchesi. Anche a mio figlio ho detto che un giorno dovrà tradirmi e trovare la sua strada. Dovrà sfornare la pizza di Stefano Pepe, come io Franco ho cercato la mia, dopo mio padre».

Esistono dei limiti alla creatività? Cos'è che su una pizza proprio non va messo?
«La creatività è felice se ha una credibilità. Io ho osato. Ho messo l'ananas in un conetto fritto per dire che si può sdoganare ogni materia prima. È l'ignoranza che spinge alla demonizzazione di alcuni ingredienti, l'incapacità di abbinarli. Se prendi un ananas dalla scatola, ricco di zuccheri aggiunti, con il pomodoro finiscono per scontrarsi due acidità. Se l'ananas è fresco, alla temperatura di 4 gradi, avvolto in una fetta di prosciutto crudo e in una fonduta di formaggio caldo, con una polvere di liquirizia sopra, allora in un conetto fritto ci sta benissimo».

Quante pizze improbabili esistono in giro?
«Ne vedo molte, ma cerco di non giudicare dalle fotografie. Bisognerebbe assaggiarle, per sapere e per capire. Io mangio la pizza di Gabriele Bonci e di Renato Bosco, sono molto diverse dalla mia e non sarei mai sfiorato dal pensiero di creare qualcosa di simile. Eppure mi piacciono. La diversità si accetta e basta. Se devo creare, voglio che a farlo sia io. Purtroppo non esiste il copyright del pizzaiolo. Servirebbe».

Molti la imitano?
«Troppi. Alla fine te ne fai una ragione, l'orgoglio prevale sul fastidio. Quali sono i capi più contraffatti nel mondo della moda? Nessuno copia qualcosa che non funziona, giusto?».

Qual è stata la sua prima pizza?
«Non me la ricordo. Sono nato qua, accanto a un forno. Sarà successo mentre giocavo con un impasto di papà. Mi piace considerare quella, come la mia prima pizza. Perché all'inizio davvero è stato un gioco. Non pensavo che sarebbe stato il mio lavoro, non volevo. L'ho capito nel tempo, molti anni dopo. Così ho lasciato la cattedra e l'insegnamento».

Che professore era?
«Se insegni attività motoria come me, non puoi essere un professore severo. Quella è l'ora in cui i ragazzi si rilassano. È un'esigenza che non deve essere ignorata. Attraverso lo sport, la scuola finisce per concedere un'ora di stacco rispetto a materie più impegnative, anche perché il contesto è quello che è. Spesso nelle scuole manca una palestra. Ci si arrangia. Ancora oggi, i miei ex studenti mi chiamano professore».

Come ha capito che doveva lasciare la scuola?
«Dopo la morte di mio padre, c'è stata una seria riflessione. Ho gestito inizialmente il locale con i miei fratelli, dopo sono partito con un percorso mio. Se fossi rimasto lì, avrei continuato a fare la pizza di mio padre per tutta la vita. Oggi la nostra figura ha avuto un'evoluzione nell'immaginario collettivo. Oggi per un pizzaiolo è possibile ricevere anche il titolo di cavaliere della Repubblica. Qui sta la differenza».

Perché a Napoli si offendono se ai Mondiali vince un giapponese?
«Se riprendiamo il concetto per cui ognuno possiede una propria identità, ci sarebbe poco da offendersi. Il punto è che spesso diventa facile far vincere un giapponese, per esportare qualcosa. Detto questo, deve essere chiaro che non solo in Campania sappiamo fare la pizza. Quella di Sara Minnick a Portland è straordinaria. Non è la pizza napoletana fatta in Oregon. Lavora anche lei sul concetto della valorizzazione dei prodotti del territorio. Il mondo è grande, c'è posto per più proposte differenti».

Cosa deve unire una pizza di Napoli a una pizza di Portland?
«L'atto di responsabilità che accomuna due professionisti. Un ragionamento nutrizionale alla base, l'idea che si deve mangiare sano, un menu funzionale. Nel mio team lavora una biologa. Le pizze vanno servite con il giusto equilibrio di proteine, lipidi e carboidrati. Dopo un confronto scientifico con l'Università, siamo stati tra i primi a ricevere il bollino della fondazione per la ricerca sul cancro.

Che farà fra dieci anni?
«Spero di essere al lavoro su un progetto che mi sta a cuore. Vorrei dedicare il mio futuro ai ragazzi che un futuro non ce l'hanno. Può essere a Ponticelli come nell'ex Jugoslavia, in Ucraina come in Brasile. Sento di doverlo a Maurizio».

Chi è Maurizio?
«Un ragazzino adottato dai miei zii. Aveva cominciato un percorso fantastico qui da noi, in Italia, psicologicamente si è perso. I miei lo hanno riaccompagnato dalla sua famiglia d'origine. Sono storie di dolore, ci sono ragazzi che si portano dietro traumi incredibili e che fanno fatica a superare. Oggi Maurizio non c'è più. Ma non lo dimentico». 

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