Ciro Capano, parlo di me: «’A tieni ’na cosa ’a raccunta’? La sceneggiata non c'è più perché sono finiti gli attori»

«Devi avere le palle, per la sceneggiata. Non è un'esibizione. È una lotta col pubblico»

Ciro Capano
Ciro Capano
di Angelo Carotenuto
Sabato 21 Gennaio 2023, 10:00
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I ragazzi che lo fermano per la strada, gli aggiungono una U. Lo chiamano Capuano, come il regista, il ruolo che Ciro Capano ha avuto nel film È stata la mano di Dio. Le due frasi che più spesso citiamo dal capolavoro di Paolo Sorrentino, le dice lui. «Non ti disunire» e «A tiene na cosa a raccunta'»?

Ha un mondo da raccontare, Capano, adesso in scena con Geppy Gleijeses in Uomo e galantuomo di Eduardo, ma «mi sento più vicino a Viviani - dice - a Libero Bovio. Vengo da un quartiere popolare, mamma era di Forcella, sono cresciuto all'Arenaccia in mezzo alle voci degli ambulanti. Non è domenica se non torno là e passeggio in quelle strade».

Com'era la famiglia Capano all'Arenaccia?
«I miei erano commercianti. Compravano balle di panni dalle navi venute dall'America e li vendevano a Resina. È arrivato o vapore, diceva papà. Jeans, pellicce, cappotti. Non era per me. Volevo fare il teatro già a 14 anni, niente scuola, niente lavoro. Papà e mamma erano degli appassionati, frequentavano il Mercadante, le riviste di Totò, andavano al San Ferdinando. Mi portavano a vedere la sceneggiata al teatro Duemila, una traversa del corso Garibaldi. Avrò avuto 7-8 anni».

È stato così che se n'è innamorato?
«Un giorno alle medie feci filone con un amico, Alfonso, andammo a nasconderci al corso, riconobbi il teatro. I soldi erano pochi, pregammo la signora alla cassa, ci fece entrare. Dal teatro non sono uscito più. Rubavo i soldi dal borsellino di mamma per comprare il biglietto, finché trovai il coraggio di fermare uno degli attori, Raimondo Salvetti, ogni tanto ancora ci sentiamo.

Gli chiesi che dovessi fare per recitare. Sei giovane, rispose, lasciami il telefono. Tre giorni dopo, mi aveva chiamato. Era uscito un ruolo all'improvviso, mi aveva procurato un provino col direttore Enzo Vitale. All'epoca i registi si chiamavano così».

E andò benissimo.
«Andò malissimo. Non avevo mai recitato. Dovevo fare la parte di una guardia americana, dovevo dire: come on, come on, just a moment please. Invece cominciai a balbettare, davanti a Beniamino Maggio mi feci rosso rosso, tremavo. Il direttore capì, sei emozionato, disse, non ti preoccupare, non ti mando via, fai la comparsa. Così ho iniziato, ero il prete nella sceneggiata A seggia elettrica, scritta per Sacco e Vanzetti. E dopo ho lavorato con Pino Mauro, Mario Da Vinci, Carmelo Zappulla. Fino alla chiamata di Mario Merola nel 1982».

Come si era accorto di lei?
«Mi aveva visto una sera in scena, mi fece chiamare da Leonardo Ippolito. Il guaio è che all'epoca esisteva un antagonismo fortissimo tra mauriani e meroliani, due cerchie diverse, due stili diversi, una rivalità che si fa fatica a spiegare, e io ero mauriano. È stato il mio maestro, mi ha dato le basi, sono cresciuto nella sua famiglia. Merola era considerato vicino al popolo, Mauro aveva il suo carattere, ognuno era geloso dei propri attori. Pino era in difficoltà, lo avevano coinvolto in una storia da cui è stato assolto. Quando mi presentai a Merola, fui chiaro. Se rinnegassi Pino Mauro, gli dissi, sarei un vigliacco. Se a lei dà fastidio, per me è stato un onore conoscerla, ma ci salutiamo qua».

Perché si è persa la tradizione della sceneggiata?
«Sono finiti gli attori. Se ho avuto le mie occasioni, lo devo alla sceneggiata. Dovevi saper cantare, ballare, recitare. Come nei musical. Un teatro popolare che non esiste più. Un peccato. I turisti in Argentina vanno a vedere il tango, a Lisbona vanno a sentire il fado, da noi dovrebbero vedere la sceneggiata».

Perché è diventata una specie di insulto? Si dice: non fare sceneggiate.
«Quando lo sento da un politico, penso: guarda da che pulpito. La sceneggiata è nata con i classici, dopo sono arrivate le canzoni della mala, i drammi della vita reale: l'abbandono di una figlia, due innamorati che si scoprono fratello e sorella. Ha fatto nascere artisti come Ugo D'Alessio, Tina Pica, Nino Taranto, Luisa Conte. Mi chiamano l'ultimo cantante di giacca perché ho avuto il privilegio di lavorare con loro. Ho rubato il mestiere guardandoli da dietro le quinte, coi piedi sopra a una graticcia fradicia».

In che cosa è diverso un cantante di giacca?
«Dev'essere prima attore. In ogni quartina ci sono 20 intonazioni. (Accenna un pezzo). Senza offesa, un cantante non lo sa fare: cambiamenti continui di toni, colori, emozioni. Si andava in scena con un fazzoletto annodato alla gola. Un'altra cosa ancora è a fronna e limone, il canto a figliola. Un repertorio diverso. Ho fatto anche quello, el sfide alla Vicaria e alla Sanità, voce nasale, non curata. Più scassata era e più piaceva».

Come ha avuto la parte da Sorrentino?
«Grazie a questo mondo che mi porto dentro. Arrivo al provino, lui ha il mio curriculum in mano, dice: sai cosa mi ha colpito? Mi aspettavo i lavori con Albertazzi e Wertmüller. Mi fa: la sceneggiata, raccontami tutto, il provino aspetta. Mi ha tenuto sotto mezz'ora, mille domande. È stata la soddisfazione più grande della vita mia. Devi avere le palle, per la sceneggiata. Non è un'esibizione. È una lotta col pubblico. Non ti fanno parlare, inveiscono, a Catania mi hanno aspettato fuori perché in scena ero uno che violentava una bambina. Mia madre non è venuta più a vedermi, per non sentire le parolacce della platea».

C'è tutto questo in A tiene na cosa a raccunta'?
«Pensai: quando mi ricapita. Mi ero preparato con Lalla Esposito. Sorrentino urlava: non ti fermare. Ero come invasato, si commosse, non sapevo del suo dramma, non capivo. La mattina delle riprese all'alba, sul set si è creata una magia. Pensavo: perché non mi ferma? Starò andando bene? Sentivo una forza, una carica fisica, un'energia che si prova quando ti attrae una donna. Questo è successo in quella scena. All'ultimo ciak ho avuto una crisi, non mi vergogno, piangevo come un bambino. Paolo gridò: signori, Ciro ha finito il film. Sono crollato. Sorrentino mi ha fatto il pieno di vita».

Senza teatro che avrebbe fatto all'Arenaccia?
«E chi lo sa. I miei mi hanno dato dei valori, mio fratello è avvocato, mia sorella è laureata. Ma i carabinieri sono venuti quattro volte a cercarmi in teatro perché non andavo a scuola. Chiesi aiuto a Beniamino Maggio: se resto nel quartiere, mi perdo. Ho la terza media perché mia mamma andò a pregare i professori. Mi hanno salvato il teatro e il rugby, giocavo all'Albricci. È lo sport dove si passa la palla solo all'indietro, devi aiutare chi viene dopo di te. Ho avuto una parentesi da politico e nel quartiere mi sono dedicato a chi veniva da scippi e rapine. Li ho iscritti a corsi di chitarra, ho pregato i commercianti che gli dessero un lavoro, gli ho insegnato come si lavano i denti. Questo dovrebbero fare le istituzioni. Da ragazzo andavo in tribunale a sentire le cause. L'avvocato penalista è un grande attore. Potendo, oggi studierei giurisprudenza».

Ciro Capano si è mai disunito?
«Non lo so. So che non mi sono venduto, non mi sono mai voluto zuzzià. Potevo guadagnare facendo la sceneggiata mischiata a certe situazioni. Mi volevano a cantare pezzi neomelodici a certi matrimoni. Ho risposto sempre: grazie, non posso accettare. Anche quando non tenevo mille lire. Ci serve uno che fa Nino D'Angelo, dicevano. E chiamate a Nino D'Angelo, no? Ho ancora sete, ho fame di imparare. Sorrentino mi ha caricato. Io sono un tipo riservato. Non lo voglio scocciare. Ma so che se ha bisogno, mi chiama». 

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