Paola Quattrini, parlo di me: «Prima dello spettacolo mi piace origliare il brusio, si capisce che pubblico è»

L'attrice in scena con "Se devi dire una bugia dilla grossa"

Paola Quattrini
Paola Quattrini
di Angelo Carotenuto
Domenica 18 Dicembre 2022, 08:13 - Ultimo agg. 31 Dicembre, 16:20
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Nel camerino del teatro Parioli di Roma, c'è una foto di famiglia infilata nell'angolo basso dello specchio. Le luci calde, la stanza pure, il rito del trucco di ogni sera. «In teatro si fa da soli, aiuta a entrare nel personaggio». Paola Quattrini stira le ciglia e arrossa le labbra. Sta per mettere la camicia da notte della moglie dell'onorevole Natalia per la terza volta in carriera, in Se devi dire una bugia dilla grossa, a 36 anni dalla prima versione con Johnny Dorelli e Gloria Guida. «Mi sono sempre detta che mi piacerebbe sapere quante volte la gente ride con questa commedia». Più tardi, dalla poltrona in platea, si perde il conto una volta superate le centoventi. «Mi spiace che Napoli non possa vederla. Non so perché. È anche vero che Napoli delle volte ride meno di altre città».

L'ha detto su queste pagine qualche settimana fa anche Dario Cassini. Lei come lo spiega?
«A Napoli si ride dei lavori napoletani. In fondo non è strano. È curioso che il pubblico sia più espansivo fuori. Alla fine ti avvicinano e ti dicono che si sono divertiti proprio tanto, solo che io dal palco non me ne sono accorta. Da ragazzina ho lavorato con Peppino De Filippo in televisione. Ho un curriculum sul sito e ogni tanto scopro che non è tutto. Ho cominciato a cinque anni».

Le bimbe prodigio fanno anche le recite scolastiche?
«Sa che non ne ricordo? Mi mancano.

Recitavo però ai corsi di una certa signora Wanda Pietrini, al teatro Fiammetta, spettacoli musicali di fiabe, c'erano pure Massimo Dapporto e Raffaella Carrà. Io ero la prima donna di questa compagnia (ride), questa storia me la ricordava sempre mia madre. Come ho iniziato, lo sapeva lei, io non lo ricordo. All'inizio era un divertimento, senza aspettative. Sono la quarta di quattro femmine. Sono nata e mio padre mise un cartello fuori la porta con la scritta: che fregatura. Ero arrivata tanto tempo dopo le mie sorelle. Indossavo i loro vestiti e inventavo storie con le mie recite. Non ho mai giocato con una bambola».

Recitava qualcuno in famiglia?
«Dopo di me Marisa, la sorella più grande. Mio padre non voleva. Pensava che le attrici fossero donne poco serie. Perché Paola può farlo, chiedeva lei, e a me non lo permettete? Perché tu sei già grande - aveva 18 anni - mentre Paola è una bambina, rispondeva lui: poi le passa. Marisa è andata all'accademia d'arte drammatica, ha recitato con Ronconi, con Sergio Fantoni, ha fatto Liolà con Modugno. Era molto brava, una donna stupenda. L'ho persa quando aveva 40 anni. È stato il mio primo dolore, così giovane, così bella. Lei aveva la disciplina, io avevo il gioco. Mi ha insegnato il rispetto del palcoscenico che non avevo. Ero solo istinto».

C'è qualcosa che non si impara?
«Stavo per dire il genio, intendo quella cosa misteriosa che chiamiamo talento. Ma si impara a tirarlo fuori, a dosarlo. Puoi dir bene le tue battute, se non hai personalità, la strada non sarà luminosa. Le scuole insegnano tanto, io credo di aver fatto la più importante, sulle tavole. Mario Scaccia all'inizio mi riprendeva. Ero irruenta, maldestra, piena di energia. Mi insegnò che sul palco si cammina come in un negozio di gioielli. Ora tutta questa disciplina riemerge. Mi dà fastidio se qualcuno non ha il passo leggero, se c'è chi fischia in camerino, chi non toglie il capello».

Si è attrice in ogni momento del giorno?
«Trova che sto recitando? Ogni tanto me lo dicono. Forse da ragazzina di più. Non so, non credo di atteggiarmi, sono così. Sono una donna fortunata che non ha mai smesso di fare questo lavoro. Mi chiamavano la Shirley Temple italiana. Ho lavorato anche mentre ero incinta di mia figlia, su un testo di Dario Fo. Mi sono fermata cinque mesi e la portavo con me in camerino, soprattutto d'estate. Così ha fatto l'attrice pure lei (Selvaggia Quattrini, nda), la prima volta in un lavoro di Shakespeare. La infilarono in una cassa per farmi uno scherzo. Uscì ballando. Abbiamo fatto altre cose insieme, ma ero agitata, apprensiva. Non mi divertivo io e toglievo gioia a lei. Mai più con te, mi disse».

Com'è una risata da un palco?
«Liberatoria. Regalare due ore di divertimento e di emozioni a qualcuno che non deve pensare a niente, mi riempie. Prima dello spettacolo, mi piace stare dietro il sipario a origliare il brusio che fa la gente con le luci accese. Si capisce che tipo di pubblico avrai di fronte».

C'è un ruolo che le manca?
«Fino a poco fa avrei detto Un tram che si chiama desiderio. Quando è arrivato, baciavo il palcoscenico ogni sera prima di entrare. Oggi mi piacerebbe lavorare con registi che possano farmi scoprire cose nuove di me. Sto facendo la corte a Lorenzo Salvetti. In passato abbiamo anche litigato tanto, ma è quello che più mi ha emozionato. Un regista pignolo, anche antipatico, ma quando entri in scena sai esattamente chi sei. Guarda dallo smalto alle scarpe, ti fa crescere durante le prove. All'inizio lo spettacolo è suo, dopo diventa tuo».

Per cosa si litiga in teatro?
«Prima di tutto se non pagano. Non è che ci si è sempre simpatici uno con l'altro. Anche nelle famiglie non tutti si piacciono. Si vive insieme, ci sono preferenze, si va fuori in turnèe. Ognuno porta le sue manie, c'è quello che pensa a dove mangiare, l'altro che si lamenta perché in sala fa freddo, alla fine ci si ritrova tutti intorno all'amore per questa magia».

Ha dovuto studiare molta dizione?
«Tutti all'inizio credevano che io fossi di Milano, ma sono una delle poche romane vere, da sette generazioni. Quartiere San Saba. Vivevo in una casa popolare. Se mi accompagnavano a casa, indicavo un altro portone perché il mio non mi piaceva. Ne soffrivo. Mi sono sposata a 18 anni solo per andarmene. Allora non si poteva essere indipendenti senza un uomo. Lavoravo, avrei potuto, mi sarebbe piaciuto viaggiare. Invece serviva la figura di un uomo che ti portasse via dai genitori. Guardo mia nipote e sono felice, per lei e per la sua generazione. Se non sei padrona della tua libertà, non puoi unirti a un'altra persona senza viziare il rapporto».

Se deve dire una bugia, anche lei la dice grossa?
«Non sono brava, mi scoprono. Mentire è faticoso, devi ricordare e io ho tutta la memoria concentrata sul palcoscenico. Preferisco la sincerità, anche se fa male. Forse perché la finzione è il mio lavoro. A me di bugie ne hanno dette tante in amore e ho sofferto. Quando le ho scoperte, mi sono vendicata. Una volta ho distrutto una macchina. Una Mercedes. Svitai anche la stella e ne feci un ciondolo. La sera dopo, venne a casa e me lo feci trovare al collo. Era stato crudele anche lui».

Cosa avrebbe fatto senza il teatro?
«Forse la ballerina. Così dicevo da piccola. Le lezioni di danza classica le sto prendendo adesso. Mi piace sentire il mio corpo, credo di poter essere d'esempio per le donne della mia età, se mi vedono piena di energie. Non ho avuto tempo da ragazza per ballare. Dovevo lavorare. Papà è morto quando avevo 10 anni, non avevamo molti mezzi. Faceva l'idraulico e ogni tanto un secondo lavoro al mattatoio, tornava a casa con il camice sporco di sangue e io soffrivo tantissimo. Perché non lo toglieva, quel camice? Era scherzoso e gioioso con gli amici, in casa severo, con le mie sorelle severissimo. Non so perché mi sia venuto in mente proprio ora il camice, e dopo il camice dell'ultima volta che sono andata a trovarlo in ospedale, mi disse: fra poco questa manina non la sentirò più. Pensavo che la morte non mi riguardasse e un giorno ti rendi conto che è vicinissima. Non ci voglio pensare. Spero che mi prenda in piedi. Mentre recito. O mentre ballo».

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