Carolina Rosi, parlo di me: «Non mi piace il presepe, è faticoso custodire le lemorie dei padri»

«Non vengo da una famiglia cattolica, non mi piace il presepe e non faccio neanche l'albero»

Carolina Rosi
Carolina Rosi
di Angelo Carotenuto
Sabato 10 Dicembre 2022, 12:00
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Questa casa alle spalle di Trinità dei Monti è il posto dove Visconti e Fellini fecero pace dopo anni di ruggini. Non è stata un salotto romano tra tanti. Casomai era un soggiorno, si saliva suonando al citofono, e poteva suonare un Kennedy come Joan Baez, Moravia o La Capria. È la casa dove hanno vissuto Francesco Rosi e sua moglie Giancarla Mandelli, sorella della stilista Krizia. Gabriel García Márquez a cena li vide discutere per la cinquantesima volta sul tipo di pasta da calare, corta o lunga, e disse di aver capito così che cos'è l'amore. È stata qui bambina, Carolina Rosi. Non pensava di tornarci, «perché è troppo grande e ci sono troppi ricordi». Ha portato i suoi quadri e ha lasciato il resto com'era, quando suo marito Luca De Filippo - poco prima di morire 7 anni fa - le disse che le avrebbe fatto bene lasciarsi accarezzare da quelle stanze e quelle pareti, dall'eco delle parole ascoltate, da quella faccenda gigantesca che per comodità chiamiamo memoria.

«Forse era un messaggio. Alla morte di papà mi disse: benvenuta nel mondo degli orfani, apprezzerai gli aspetti positivi. Intendeva: diventi padrona della tua vita. Luca riusciva sempre a mediare il lato negativo delle cose con una prospettiva positiva. È nelle minuzie che si scopre l'amore per la vita, nella ricerca di un'emozione anche piccina, tra le brutte notizie. Quale sarebbe l'alternativa: restare per sempre con la rabbia dentro, perché ti è stato portato via qualcuno prima del tempo?».

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Che altro ha imparato accanto a Luca?
«A teatro mi ha insegnato la tecnica per neutralizzare i vuoti di memoria, avere una soluzione di riserva, a parole proprie.

Agli attori che gli cambiavano il testo, Eduardo diceva: per favore, non mi migliorate. Geniale. Ci sono aneddoti di persone fermate in scena, con avvisi al pubblico: scusate, ora vi ripete la battuta. Accadeva quando il senso andava perduto».

Occorre sempre l'autorizzazione della famiglia per portare in scena un'opera di Eduardo?
«Non la mia. Ho rinunciato all'eredità di Luca. Trovo giusto che sia tutta dei figli, compresa la facoltà artistica di concedere o no una commedia. Io porto avanti la compagnia, non entro nel merito delle scelte. Posso dare un consiglio, cerco di non interferire con chi fa il mio stesso mestiere. Non lo troverei corretto».

Ha mai visto Eduardo a teatro?
«Il Berretto a sonagli, con mio padre. Ho conosciuto Eduardo con lui, non con Luca. Franco mi portava ovunque, a 5 anni già al Barbiere di Siviglia. Sapeva che mi sarei addormentata, dev'essersi detto che qualcosa dentro sarebbe rimasto. Odiavo il teatro enfatico. Quando ho visto Eduardo, ho capito che c'era qualcosa di diverso, di più vicino alla verità. Preferivo lui o un Vittorio Caprioli ad altri attori grandi ma con un tono declamatorio».

Anche loro frequentavano casa?
«Caprioli ogni giorno. Per un periodo fu allontanato. Franca Valeri aveva scritto una commedia in cui erano riconoscibili certi intrecci amorosi della nostra famiglia: la prima compagna di Franco era stata Nora Ricci, ex moglie di Vittorio Gassman. Caprioli allora citofonava tutte le sere: fatemi salire, non so vivere senza di voi. Alla fine fu: Vitto', e sali. Eduardo no, non frequentava casa. Con Franco c'erano amicizia, stima, iniziative in comune: ne ricordo una a Nisida. Fu felice quando Franco pensò di fare un film da Sabato domenica e lunedì. Non ha mai raccomandato Luca, era anzi molto geloso che potesse lavorare con altri, compreso Strehler. Eppure disse a Franco: sarei contento se recitasse con te. Luca non l'ha saputo fino alla morte di Eduardo».

Ha sempre chiamato suo padre Franco?
«E lo stesso con Giancarla, che alla parola mamma non si girava. Non potevo chiamarlo papà sul set. Devo aver cominciato lavorandoci insieme, come aiuto e poi attrice. Resta Franco anche se non c'è più. È stato Franco durante la lavorazione del documentario Citizen Rosi con Didi Gnocchi, 8 ore di conversazione su un divanetto. Quando lo rivedo in un'intervista, quando ne sento la lucidità, penso mi piacerebbe parlargli ancora 5 minuti o avere una carezza. Ma il motto della famiglia è sempre stato: andiamo avanti».

È faticoso custodire una memoria?
«È faticoso occuparsi di tante memorie, persone che hanno avuto una vita così ricca. Mi sembra di non aver mai avuto un momento per pensare solo a me. I figli sono gli ultimi a conoscere in profondità il lavoro dei padri. Quel che c'era dietro i film di Franco, l'ho scoperto quando mi sono documentata sulle analisi che lo portavano a realizzarli».

Ha rinunciato a molti ruoli?
«Ho trovato molti veti. Anche tra registi che stimavo. Pensavano che Franco potesse intromettersi. In più non era il primo idolo dei produttori. Tanti ruoli sono mancati, altri li ho rifiutati. Ho fatto provini all'estero e alla fine pensavo: che m'importa di un film con Stallone o Big Top Pee-wee, che fece conoscere Valeria Golino in America. Col senno di poi, avrei dovuto accettare, non cedere a un'impuntatura ideologica. Ma avevo in casa l'esempio di un uomo tutto di un pezzo, uno che rifiutò di girare uno spot per la British Airways perché era contro le interruzioni pubblicitarie nei film».

Come potevano stare insieme il mondo dell'impegno civile di Rosi e la moda delle sorelle Mandelli?
«I mestieri non sono l'identificazione della natura di una persona. Franco era monotematico, viveva per il suo lavoro, mia madre aveva capito che lavorare negli atelier, era una forma di sostentamento, per permettere a lui di essere il regista scomodo che è stato. La moda è creatività. Anche gli stilisti propongono una tendenza con la conspevolezza di un autore. Krizia era molto colta, le sue creazioni nascevano dalle mostre che andava a vedere e dai colori dei pittori che le lasciavano un'emozione. È l'utilizzo che a volte se ne fa, a sminuire la moda».

E si poteva restare un regista rigoroso anche abitando una casa così ben frequentata?
«Qui mi sono formata, con il privilegio di imparare senza ricevere lezioni, guardando molti modelli, a parte i miei. Ma non era piena solo di intellettuali. Quando dico che c'era anche la mignotta - parafrasando - intendo che era il raduno di un mondo vario. Sarebbe orribile frequentare persone tutte uguali. Si impara anche per contrasto. Papà aveva un mondo fatto dal ciabattino all'angolo, dal pescivendolo che fu pure la comparsa in un film, dai negozianti con certe facce che lo incuriosivano. Non era umiltà, credo fosse un piacere per la cordialità molto napoletano. Amava pulirsi le scarpe da solo. Quasi ci parlava. Tu capisci, diceva, questo è come il culo di uno Stradivari».

Parla spesso in napoletano?
«Dipende dalle compagnie. Se vado a Milano, non viene fuori. L'ho studiato in maniera seria, come Luca che era nato a Roma. Nessuno conosce più il dialetto di Eduardo, lo stesso che Franco parlava con suo fratello e in casa, benché mamma fosse di Bergamo. È parte di me dopo trent'anni nella compagnia di Luca. Se dovessi interpretare una vajassa, forse dovrei allenarmi di più. Filumena non è un ruolo che sento vicino alle mie corde».

Carolina, le piace il presepe?
«Non vengo da una famiglia cattolica. Non faccio neanche l'albero, non ci sono bambini in casa. Non prestavamo particolare attenzione alle festività, capitava di non passarle insieme. In tutta la vita ho ricevuto un solo regalo. Se zia faceva un viaggio, mi portava con lei, i miei non mi fermavano. No, non mi piace il presepe, ma quando passeggio per San Gregorio, mi viene sempre la tentazione di comprare tutto e farne uno grandissimo. Poi penso: dove lo metto?». 

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