Gigi Marzullo, parlo di me: «Si faccia una domanda e si dia una risposta? Ho copiato un mio prof»

«Io non sarei mai andato ospite da Marzullo a Sottovoce»

Gigi Marzullo
Gigi Marzullo
di Angelo Carotenuto
Sabato 3 Dicembre 2022, 12:00
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Sedersi di fronte a Gigi Marzullo, non per rispondere, ma per far domande, è come mettere una mela sulla testa di Guglielmo Tell e tenere la balestra in mano al posto suo. Dice: «Io non sarei mai andato ospite da Marzullo a Sottovoce». Sulla scrivania di via Teulada ha una scheda su una conduttrice di Rai Yo-Yo, un'altra su un colonnello del meteo. Le vite degli altri che gli scorrono davanti e che intervista da 35 anni. Da quando un giorno lasciò Avellino. 

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Dov'era la sera del terremoto?
«Incolonnato nel traffico al corso, per un giro nella Panda dell'amico Paolo Giulivo. Ero andato allo stadio. La macchina iniziò a muoversi come una barca sul mare. Pensai fossero i soliti amici, ogni tanto si nascondevano per scuoterla. Invece vedemmo un fiume di persone scendere verso piazza Libertà e capimmo. Corsi a casa, cadevano cornicioni, mia madre e mio fratello erano giù. Chiesi: e Gerardo? Mio padre lo chiamavo per nome. Eh, Gerardo - rispose mia madre - ha detto che prima si deve fare la barba. Restammo a dormire in villa comunale. Ho resistito due giorni, presi la mia due cavalli, la roba e venni a Roma. Senza casa, senza soldi, dando un dispiacere a tutti. A mia madre dissi che morire o restare tutta la vita ad Avellino erano la stessa cosa. Non poteva crederci. Avevo la smania di andar via, adesso ho il desiderio di tornare».

I suoi si opponevano?
«Roma era il mio sogno, loro immaginavano per me una vita da medico. Da piccolo mi piaceva la figura del chirurgo. Come il dottor Ugo Muraro. Facevamo le vacanze assieme a Pescara. Ho studiato i primi anni a Pisa e mi sono trasferito a Napoli: nel frattempo volevo provare a fare l'attore.

Non è facile da ragazzo sapere cosa vuoi diventare. Io sapevo cosa non volessi. Impazzivo per Stefano Satta Flores. Un giorno lo chiamai a casa, gli chiesi come fare. Uno che nasceva ad Avellino non conosceva l'Accademia o il Centro sperimentale. Mi diede indicazioni, non riuscii a prepararmi, stavo dando l'esame di anatomia. Senza la tv, penso che avrei fatto davvero il medico. Non il chirurgo, lo psichiatra. Sempre domande sono».

Com'è arrivato in Rai?
«Andai a disturbare Pino D'Amore, in arte Sep, un annunciatore, fratello di un amico di famiglia. Gli confessai la mia agitazione interiore. Mi rispose, ti capisco: Avellino è la migliore città per andarsene. Gli davo del lei, mi fece avere un contratto di sostituzione alla radio, mi ha ospitato in casa sua. In cambio lo accompagnavo in macchina in ufficio. Con i primi soldi affittai una camera in una pensione in piazza Cavour, bagno unico, studentese, pensionati, si faceva la fila per lavarsi. Quando divenni amico della proprietaria, lei andava in vacanza e mi lasciava la sua stanza».

I suoi cosa pensavano di tanta precarietà?
«Mio padre non era contento. Sentiva la mia voce alla radio nelle pubblicità degli sciroppi Fabbri: una ne bevi e cento ne inventi. Una collega chiedeva: e sull'amarena? E io: grappa friulana Mangilli, quella dal collo lungo. Mi dava lezioni di dizione un'annunciatrice, Anna Maria Greci, bellissima, di Ferrara. C'era un gioco tra noi. Lei m'insegnava la e di veramente, io le offrivo un gelato da Vanni. Alle selezioni passai le prove audio e video, non quella di inglese. Tornai ad Avellino. I miei abitavano al quarto piano e nello stesso palazzo, al primo c'era Il Mattino. Dopo il terremoto aumentava le pagine della provincia. Il direttore Ciuni mi fece un colloquio. Disse: lei abita di sopra, vorrà restare ad Avellino. Non ci penso proprio, risposi, mi mandi a Roma. Mi assunse a Benevento. Comprai una Golf diesel e ogni 4 giorni scappavo. Così conobbi un capostruttura che mi offrì una consulenza, 10 minuti in un programma a Venezia. Ci andavo in vagone letto, registravo e tornavo. La prima volta in video avevo una barba da rivoluzionario».

Perché si racconta che entrò in Rai grazie a De Mita?
«Che lo dicano. Non me ne frega niente. Di De Mita sono stato amico. Mi ha sposato. Mio padre faceva politica con lui. Mi stimava, mi aveva visto a Tele Avellino, ma prima di essere assunto, ho fatto il collaboratore per 7-8 anni. Lo disse pure Biagio Agnes, i contratti me li sono conquistati e mi sono inventato i programmi a mezzanotte».

Che cos'è un'intervista?
«Il tentativo di conoscere e far conoscere un'altra persona, lasciandola parlare molto. Un bravo intervistatore dà solo il la. Domande brevi, risposte lunghe. Non capisco chi aggredisce. Se tu hai un maglione rotto, il mio compito non è indignarmi, ma chiederti perché si è rotto, se hai voglia di rattopparlo o di comprarne un altro. Forse l'ho capito a Medicina. L'anamnesi viene prima di diagnosi e terapie».

Cosa fa Marzullo a mezzanotte?
«Guardo Linea Notte oppure Vespa. Non mi rivedo mai. Non mi piaccio. Ho sempre pensato di avere un viso troppo grande. Ma questo è il format in cui mi sono sentito me stesso. All'inizio andavo in diretta, mi diedero mezz'ora dopo il monoscopio. La prima intervista credo sia stata con Paolo Rossi, il calciatore. Presi un orologio dal trovaroba e un panno nero, i miei programmi costano poco. Non ho vissuto succube degli ascolti, ma non sono mai stati bassi. All'inizio pareva strano che chiedessi a persone famose se avevano mai pianto per amore. Erano le domande che ci facevamo di notte con gli amici in strada: cosa farai da grande, perché ti ha lasciato la fidanzata».

La domanda più imbarazzante mai fatta?
«Le domande sono semplici, imbarazzanti a volte possono diventarlo. Mi è capitato di parlare di maternità con qualche donna che non poteva avere figli. Senza saperlo. Bisogna avere rispetto degli ospiti. Chi ti racconta la sua vita, ti sta facendo un regalo. Ti consegna qualcosa di prezioso».

A lei ironie e imitazioni hanno mancato di rispetto?
«Non mi hanno certo fatto felice, soprattutto all'inizio, ma hanno riversato su di me un'attenzione. Non attacco, so difendermi. Se sono così, lo devo alla provincia, al posto dove sono nato, gli incontri fatti, i miei. Trent'anni fa non tutti si prestavano a raccontare il primo amore. Ora vengono con piacere. Gratis. Se non avessi avuto tenacia, mi sarei bruciato in un secondo. Glenn Ford mi fece un gran complimento: perché non ha fatto lo psichiatra? Anche Richard Gere e Woody Allen dissero che in America non sono abituati a interviste che seguono il percorso umano».

Come sono nate le domande più famose?
«Dovevo esagerare, essere lievemente eccessivo. La vita è un sogno perché il programma era nottambulo. Si faccia una domanda e si dia una risposta lo diceva il professor Cetrangolo di chimica, nei giorni in cui era particolarmente generoso con noi studenti. Ripetere le stesse domande è un modo di stabilire una relazione con il pubblico. Ho studiato dai libri di Roberto Gervaso. Mi manca l'intervista a un papa, mi sarebbe piaciuto Wojtyla. Ho pianto quando è morto Luciani. Vorrei chiedere a un papa cosa resta di terreno in una vita votata allo spirito».

È più salito sulla Panda del terremoto?
«Mai. Non per un trauma. È che Paolo ha cambiato macchina. Ho paura del terremoto, della morte, di altro. Ho 69 anni, certe notti sogno di dovermi ancora laureare. Mi pare di avere la vita davanti, invece tra poco finisce tutto e mi scoccia assai. Non è giusto. Perché Dio ci dà la vita e ce la toglie? Dicono che esista la possibilità di reincontrare le persone care, ma dov'è la certezza? Dicono che c'è un'altra vita, allora fateci scegliere. Io preferisco stare qua. Anche se di là è migliore. Mi accontento. Tra diecimila e centomila, ho sempre scelto diecimila».

Marzullo, ha mai pianto per amore?
«Mi sono disperato, per amore. Albertazzi una volta mi ha detto che amare significa misurarsi con il dolore. Si soffre tantissimo, ma poi passa. Non so dopo quanto, ma passa. Solo alla morte non c'è rimedio». 

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