Anna Foglietta, parlo di me: «Quanto sono difficili i cenoni di Natale ma basta essere sinceri»

«Napoli è nel mio dna: ho una madre napoletana e ho vinto il Nastro d'argento recitando in napoletano»

Anna Foglietta
Anna Foglietta
di Angelo Carotenuto
Sabato 24 Dicembre 2022, 12:00
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Quando stasera verrà il momento della cena di Natale, bisognerà guardarsi negli occhi e fare come i cow-boy al saloon nei western. Posare le Colt sulla tavola, prima di sedersi. Le nostre Colt sono i discorsi che accendono e divampano, quelli che diventano un incendio specialmente quando è festa, come raccontano da decenni le vicende di Casa Cupiello oppure Sabato domenica e lunedì, come accade adesso ne I migliori giorni, film al cinema dal 1° gennaio con la regia di Edoardo Leo e Massimiliano Bruno.

Anna Foglietta è la protagonista del primo episodio, La Vigilia. È lei che lancia un lunghissimo grido, un fortissimo basta, una volta finita nel gorgo di una lite familiare che le rovina la carriera politica e che si scatena la sera del 24 dicembre, tra due fratelli avvelenati, divisi dalle loro reciproche posizioni sul vaccino. Per non discutere, in una famiglia così, si finisce allora per parlare del vuoto, a chiedersi se preparare la pasta o no.

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È il nostro primo Natale senza restrizioni, regioni colorate, obblighi di mascherine e super green pass. La tavola è allargata. Di cosa sarebbe meglio non parlare?
«Nelle famiglie si nascondono piccoli segreti e tantissimi non-detto, nell'aria restano sospesi argomenti che solleticano la suscettibilità d'uno e la sensibilità d'un altro.

Alcuni li conosciamo, altri finiamo per scoprirli proprio in determinati contesti. La restituzione di un prestito, per esempio. È un tema molto attuale in tante famiglie italiane. C'è chi crede nelle bugie bianche, nell'omissione. Io credo nell'assoluta risolutezza della sincerità. La chiarezza dell'io sono così: prendere o lasciare. Non facciamo altro che modellarci in base alle persone che incontriamo, come se fossimo dei Barbapapà. Succede spesso anche con le frequentazioni più saltuarie e meno ricorrenti, come quelle dettate dalle feste comandate, quando si finisce nell'attrito e nella tensione, oppure nell'ipocrisia del chiacchiericcio sterile che rende i cenoni insopportabili».

Lei come sopravvive stasera?
«Con la mia linea del prendere o lasciare. Me la godo. Ho un marito, tre figli, bambini piccoli, in casa mia c'è l'effetto magico dei regali da scartare, le cartelle della tombola, l'arrivo di Babbo Natale. A me l'atmosfera di questi giorni è sempre piaciuta e non mi sento di rinnegarla. Esiste in giro un catalogo di scuse per sottrarsi, sembra quasi un'onta dire che ti piace vivere il clima del Natale. Nel piccolo campione del nostro set, a me e Claudia Gerini quasi pareva che dovessimo scusarcene, con un senso di vergogna. La trappola del Natale è nell'aspettativa della bontà e della riconciliazione che crea, nel condizionamento ancestrale del perdono. Ci getta in una specie di ansia da prestazione, ci costringe a essere all'altezza della situazione, quando invece ci scopriamo giorno per giorno sempre più incattiviti e arrabbiati».

Perché molti drammi della società italiana esplodono più spesso nelle famiglie?
«Perché la famiglia è sopravvalutata. Intendo dire una certa idea di rispetto e di legame obbligatorio per vincolo di sangue. La mia generazione è cresciuta così, seguendo questo principio tramandato fino ai nostri genitori. Ce ne stiamo lentamente liberando, ci stiamo educando al fatto che le persone si rispettano per quello che fanno e che sono, non per un legame ereditato e precostituito. È in questo modo che il senso della famiglia cambia e si realizza in modo sano, più profondo. Buona parte del merito credo che sia dei nostri adolescenti, dei quali spesso si dice male a sproposito. È merito della loro laicità, non dico solo religiosa rispetto al dogma cattolico. Parlo di un principio quasi antropologico, dell'idea che il tempo abbia un valore e che spenderlo male fa male all'esistenza. I ragazzi sono sorprendenti, sanno prendere il meglio dalle relazioni e stanno diffondendo tra noi adulti quest'atteggiamento, ci stanno insegnando a prendere le distanze dalla tossicità che esiste nella finzione di essere felici».

Il covid ha avuto un ruolo? Abbiamo scoperto la convivenza forzata. Era sbagliato pensare che ne saremmo usciti migliori?
«Alla fine si è rivelata la più grande menzogna rivolta a noi stessi. Ci siamo sopravvalutati. Ma non è stato un errore pensarlo, casomai è stato un fallimento non essere riusciti a raggiungere l'obiettivo. Non credo che l'essere umano abbia bisogno di sperimentare condizioni catastrofiche o estreme, da brutti sporchi e cattivi, per evolversi. Se vogliamo dare il meglio di noi stessi, sappiamo farlo anche nelle migliori condizioni».

Sono temi da teatro eduardiano. È un patrimonio artistico che le appartiene?
«Molto di più. È il mio dna. Ho una madre napoletana. Ho vinto il mio Nastro d'argento recitando in napoletano nel film Un giorno all'improvviso. Ho debuttato a teatro con il Berretto a sonagli nella versione di Eduardo. Napoli è l'altra mia metà, forte quanto quella romana. Rappresenta la mia parte istintiva, giocosa e creativa. Eduardo è come Shakespeare, come Cechov e Ibsen, qualcosa a cui torni sempre, in ogni lettura. Mi lasci dire che l'ultima Filumena in tv è stata commovente, per l'interpretazione di Vanessa Scalera, per la regia di Francesco Amato, per il senso nuovo di comprensione del pensiero eduardiano. Spesso siamo ancorati al totem dell'Eduardo intoccabile, lo pensavo anche io, mi sono ricreduta».

È davvero difficile trovare oggi per un'attrice dei ruoli femminili interessanti?
«Molto difficile. Si sottovaluta la grande potenza delle donne, la nostra capacità di essere tante cose contemporaneamente. Le donne sono quasi sempre figurine abbozzate, accennate, mai davvero rotonde, come se fossimo tutte una uguale all'altra. Rappresentare la femminilità soltanto come potente o repressa, non è un buon servizio che si rende alla collettività. Io mi sento forte e fragile insieme. È in un personaggio così definito come Filumena Marturano che vedo concentrata la mia storia di cittadina, artista, donna e filantropa».

«Ogni bambino è il mio bambino», dice lo statuto della onlus che lei presiede: Every Child is My Child. È vero che la prossima iniziativa riguarda la città di Napoli?
«Con l'azienda Facile ristrutturare stiamo per recuperare uno spazio tra Melito e Scampia, dove immaginiamo di far nascere un'area polivalente per i giovani del quartiere. Sarà possibile imparare un mestiere, insegneremo a fare la pizza, lavoreremo per andare oltre le difficoltà che ogni giorno questi ragazzi sono chiamati ad affrontare».

Com'è stato il Natale di una bambina romana con una madre napoletana?
«Un Natale con trenta insalate di rinforzo, la pasta cresciuta, o capitone, un continuo vociare. Casa mia era un vicolo, pur essendo a Roma. Era un'isola, un matriarcato, con donne che cucinavano, litigavano, cantavano. Ho imparato che non tutte le donne devono condividere per forza lo stesso cammino. Siamo chiamate a fare più cose insieme, ma lo dico senza voler sottolineare l'incredibile nota di colore. Non voglio dire che siamo delle super eroine. Io detesto i superlativi. Nei superlativi vive la menzogna».

Anna, alla fine come ci regoliamo stasera con la pasta? Si prepara o no?
«La pasta si deve fare. Casomai facciamo la frittata di maccheroni il giorno dopo». 

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