Raimonda Gaetani, parlo di me: «Così ho vestito i grandi»

«Tutti i napoletani sono bizzarri, per accorgersene basta passeggiare. Già Roma è molto diversa»

Raimonda Gaetani, parlo di me: «Così ho vestito i grandi»
Raimonda Gaetani, parlo di me: «Così ho vestito i grandi»
di Angelo Carotenuto
Sabato 18 Febbraio 2023, 12:00
7 Minuti di Lettura

Lo studio romano di Raimonda Gaetani è un inno all'amore per l'arte e per il teatro. Da una parete appare la foto di un giovane Andy Warhol che sorride, più avanti Eduardo che abbraccia Zeffirelli, e di fianco lei. Ha disegnato costumi per i loro capolavori in scena, dagli Anni Settanta in poi, per il tour delle commedie di De Filippo in Inghilterra, all'Old Vic e al National Theatre, per la lirica al Metropolitan di New York. Ha lavorato ai film di Billy Wilder e Federico Fellini, l'Istituto di cultura di Londra le ha dedicato cinque anni fa una mostra. Ha vestito Placido Domingo e Liz Taylor, ha dato un abito ai personaggi di Pirandello e Lorca. Dei tanti ne conserva solo uno, «da qualche parte» dice, in questo laboratorio di idee e tessuti. È il vestito da sposa di Filumena Marturano, visto nel 1977 al Royal Theatre di Norwich e al Lyric Theatre di Londra, quattro anni dopo il successo di Saturday Sunday Monday. «Si trattava di una mediazione rispetto all'abito che Eduardo stesso aveva pensato in origine per Titina, l'abito di una donna che si veste per la sua vittoria, tra la moda e il sogno, con delle rose. Giambattista Valli lo ha ricreato per la mostra di Londra. Era andato perduto. È l'unico che ho».

Come ha scoperto che questa era la sua strada?
«Io la mia strada la sto ancora cercando. Mi ero iscritta alla facoltà di Architettura, sognavo un futuro in quel campo col mio mentore Aldo Loris Rossi. Sono stati Eduardo e Zeffirelli a dirottarmi sul teatro. Una gioia che mi ha offerto la vita. Avevo conosciuto Franco quando da un banchiere americano comprò casa a Positano, non distante dalla mia. Fu grande simpatia a prima vista, all'epoca ero molto eccentrica, mi vestivo con degli stracci, cose inventate, la Positano d'allora disponeva di una grandissima capacità artigianale.

Bastava chiedere: una gonna così, dei merletti così, e tutti lavoravano. Non succede più. Con le mani non sanno e non vogliono far più niente. Solo social, solo telefonino. Zeffirelli stava cominciando il suo grande lavoro di traduzione in Europa del teatro napoletano. Mi chiese se volessi occuparmi dei costumi per la rappresentazione a Londra di Sabato domenica e lunedì, con Laurence Olivier e Joan Plowright. Non sapevo come si facesse, cominciai dalle scarpe. Sono partita dai piedi».

Com'erano quelle scarpe?
«Un modello da gagà napoletani, di cui ero esperta. Bianche e nere, mi pare. Erano pensate per il personaggio del ragioniere Ianniello che fa impazzire di gelosia don Peppino Priore. Nel giro dei miei amici Rubinacci, indulgevano Eduardo e De Sica. Si discettava della manica tagliata in quel modo, del giro ascella in quell'altro. Erano ambiti dove si discuteva di alta filosofia dell'abbigliamento. Per raccontare Napoli all'estero, pensai che dovessi magnificare questo mio mondo napoletano, di cui peraltro ero fierissima. Il mondo del culto del vestire trasmesso in famiglia, come accade al giovane Rocchetiello con il nonno, in Sabato, domenica e lunedì».

A Napoli ci si veste meglio che altrove?
«È più fantastica la visione che i napoletani hanno di loro stessi, rispetto alla moda. Tutti i napoletani sono bizzarri, per accorgersene basta passeggiare. Già Roma è molto diversa. Napoli è meno ossequiosa ai dettami. Interpreta di più. Penso sia un accrescimento di valore. Credo che esista la convinzione di essere più seducenti. La seduzione è il fine del vestito».

Lei parla dell'industria o dei cittadini?
«Io parlo dei cittadini. L'industria non c'è. Non esiste. Eccetto che per delle cose di alta qualità, la produzione mi pare che sia tutta al Nord. O no?».

Che cos'è l'eleganza?
«È un equilibrio misterioso tra la moda e la classe, due cose assai diverse. L'eleganza non è esibizione, va spiata. Oggi il consumo e il grande mercato interferiscono. Prima era elegante un uomo che portava una meravigliosa giacca lisa. Adesso un uomo del genere in pubblico non appare, forse starà chiuso in qualche casa a scrivere qualcosa. L'altra sera ne è passato uno da Fazio, un professore, come un'apparizione. I grandi dandy napoletani erano fantastici».

L'eleganza è fluida?
«Al cuore dell'eleganza, il genere scompare. Rosa Chemical a Sanremo aveva una cosa stra-tagliata, dissennatamente somigliante a un doppio petto, eppure dentro ci si muoveva benissimo. Anche il figlio di Gigi D'Alessio era elegante, anche Ariete mi è piaciuta, Elodie stava tra il porno e la bellezza assoluta. Voglio dire: l'eleganza non ha niente a che fare con i canoni. Ha una sua qualità interna. È gestione di sé stessi in un abbigliamento».

Perché il look viene spesso trattato come antitesi della sostanza?
«Sembra che bisogna vergognarsi della bellezza. Forse è il retaggio di un atteggiamento settecentesco, pariniano. L'eleganza per definizione non può essere volgare, né supponente, né pretendere di prendere il posto della verità. Non si manifesta certo attraverso forme che offendono qualcos'altro. Essere e apparire vanno insieme".

Non è vero che l'abito non fa il monaco?
«Lo fa, lo fa. Sapersi presentare è un requisito. Fa parte dell'educazione. Non dico acchittarsi. Se lei fosse venuto con una camicetta di tulle rosa, mi sarei chiesta: che vuole? Molto di sé si dice vestendosi. Anche senza volerlo, anche travestendosi. Non si può credere alla moda, soprattutto da quando ha cominciato a impossessarsi dell'immagine altrui. Quando inizi a vestirti per imitare, non riconosci più te stesso. in questi ultimi anni è stata fatta un'operazione tremenda. Del resto, la commedia del ridicolo è eterna».

Che bambina è stata?
«Pessima. Era molto avventurosa e molto marinara, tra barche e immersioni subaquee. Anche con Eduardo andavamo spesso a pescare l'alalonga, poi ogni tanto ributtavamo tutto a mare, povere bestie. Mi piacevano le bambole, vecchie, nuove, fatte a mano, imbottite. Ah, certo, ora che ci penso: confezionavo interi guardaroba per loro, cappotti di cammello, vestiti da sera. Facevo delle gran sfilate. Forse c'era qualcosa della costumista già da allora, me lo sta facendo ricordare».

Che libri c'erano in casa sua?
«Papà mi regalò La scala d'oro, la collana della narrativa per ragazzi, con Andersen e Lewis Carroll. Mia madre era inglese, Elisabetta Pattison. La sua famiglia aveva costruito la Napoli-Portici, la prima ferrovia. In casa nostra c'era un dizionario inglese-napoletano usato dai miei nonni per comunicare con i lavoratori. Non si parlava italiano. Siamo alla fine dell'età borbonica. Conservo delle lettere in cui due fratelli si scambiano pareri su Garibaldi: arriva, che facciamo, restiamo o andiamo via? Lo sbarco di Garibaldi come una grande sfida a un'impresa industriale. Pazzesco, se ci pensa. I torinesi ci hanno fatto secchi. Dell'impresa meridionale, i grandi cotonifici, non è rimasto niente».

Dirlo non è da vittimisti?
«Non credo. È una ricerca sulla maniera in cui hanno funzionato le cose, sui motivi dell'empasse tremendo che vive ancora il sud, sul perché è stato depredato. Se un paese si basa sull'unità, allora c'è stata una cattiva gestione di una parte. Hanno lasciato che avanzasse la porzione legata alla Francia e alla Germania, il sud è stato lasciato indietro. Perfino l'Alfa Romeo non è riuscita a resistere. Vorrei donare questo archivio di famiglia a qualche museo. Non sono mai stata a Pietrarsa, spero di andarci quanto prima».

Cosa le manca di Napoli?
«La lingua. Parlare e sentir parlare in napoletano, vivere in napoletano. Se mi esprimo in inglese e in francese, mi accorgo che mi traduco dal dialetto. Anche a Eduardo mancava Napoli, e invece diceva ai giovani: fujtevenne. Quando ogni tanto tornavo, mi chiedeva di portargli na bella incappucciatella o na scarulella. A Roma non ne trovava. Era un grande cuoco, sa? Un cuoco raffinato e semplice. Alla fine, quello è il segreto. La semplicità è la mamma dell'eleganza». 

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