Terremoto in Irpinia, l'occasione perduta della ricostruzione

Terremoto in Irpinia, l'occasione perduta della ricostruzione
di Generoso Picone
Venerdì 30 Ottobre 2020, 18:00
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Il duca di Camastra avrebbe fatto meglio. Lui, Giuseppe Lanza di Camastra, vicario del vicerè di Napoli e inviato in Sicilia dopo il terremoto che tra il 9 e l'11 novembre del 1693 sconvolse la Val di Noto: Leonardo Sciascia, in «Nero su nero» del 1979, lo descrive come un hidalgo dell'urbanistica, o come all'epoca si poteva definire la pianificazione delle città. Passava con il suo cavallo tra le macerie e segnava con un gesto preciso e intimativo dove strade e piazze dovevano sorgere. Così, aiutato soltanto da un prete e con pieni poteri, seppe metter mano alla ricostruzione e fece nascere i preziosi centri storici di Catania, Noto, Lentini. 

«Ma si può ricordare un uomo simile, in tempi in cui godiamo di democrazia, di socialismo e di architetti?», la domanda di Sciascia. Roberto Ciuni, allora direttore de «Il Mattino», la riprese nel gennaio 1981, nell'introduzione al fascicolo che raccoglieva le pagine dal 24 novembre all'8 dicembre 1980, «Quei giorni delle macerie, della paura e della rabbia» ne è il titolo, il referto della catastrofe del terremoto d'Irpinia.

Il duca avrebbe fatto meglio. Meglio di architetti, urbanisti, amministratori e tecnici a vario titolo il cui risultato per esempio è la nuova Conza della Campania squadrata, asettica e fuori misura, la Teora del quartiere Pianistrella che pare un pezzo di periferia metropolitana, la Bisaccia della zona del piano regolatore nella provvisorietà perenne non ha meritato nemmeno un riconoscimento toponomastico -, le colline sventrare da inopportune opere infrastrutturali per condurre ad aree industriali spesso deserte: insomma, la geografia delle troppe imposture con le dovute eccezioni, di Sant'Angelo dei Lombardi innanzitutto - disseminate sul territorio che 40 anni fa era il cratere e che poi s'immaginò potesse diventare il laboratorio di un Sud dell'osso appenninico in grado di tutelare il suo spirito del luogo ma anche e soprattutto di conquistare livelli di dignitosa modernità. Intanto, che cosa è successo? 

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Cesare de Seta, storico dell'Architettura dalla scrittura narrativa, tra lettere e arti, era tra i relatori del convegno che l'Istituto «Gramsci» organizzò ad Avellino il 15 e 16 gennaio 1981. A meno di due mesi dal 23 novembre il meglio dell'intelligenza non soltanto progressista d'Italia discusse di «Politica e cultura per la ricostruzione del Mezzogiorno». Nel suo intervento de Seta propose una legge di due o tre articoli che consentisse alle istituzioni pubbliche di stanziare fondi sui propri bilanci per la ricostruzione e di trasferire quadri tecnici per un certo periodo alle aree terremotate». Chiese «un travaso di esperienze che si risolve in un autentico arricchimento per le amministrazioni interessate»: da Torino, Milano o Brescia per lavorare in Alta Irpinia e pure a Napoli. Nel 2002 pubblicò poi un romanzo, «Terremoti», in cui il protagonista è il geologo Andrea il quale ritorna nei luoghi dove ha operato durante l'emergenza e davanti a quanto nel frattempo è stato realizzato sprofonda nella tristezza della sconfitta: «C'era una specie di villaggio tutto cubi e cubetti bianchi, con un'aria leziosa, che sorgeva in un'area esterna al vecchio paese. Poteva essere scambiato per un quartiere periferico di Algeri e di Tunisi».  

 

Anni di piani - di recupero, particolareggiati, regolatori generali e provinciali di coordinamento territoriale e di norme, ordinanze e decreti per arrivare a un'occasione perduta, dunque? «L'ennesima, il Sud è pieno di occasioni perdute», risponde Cesare de Seta oggi. Con conseguenze pesanti, se è vero quello che Donatella Mazzoleni in una ricerca del Centro regionale di analisi e monitoraggio del rischio ambientale denunciava già nel 2005: che il paesaggio ha subìto con la ricostruzione «un attacco all'identità ambientale addirittura superiore a quello indotto dal sisma cui essa intendeva porre riparo».

Ma perché? «Ci sono stati errori madornali e spreco nell'intervento pubblico», spiega Vezio De Lucia, architetto con lunga esperienza di funzionario dello Stato al ministero dei Lavori Pubblici già all'epoca innovatrice e breve di Fiorentino Sullo, coordinatore del programma di ricostruzione a Napoli, assessore comunale all'Urbanistica nella prima giunta di Antonio Bassolino. Quali errori? «Innanzitutto la decisione di affidare tutti i poteri nelle mani dei Comuni in assenza di coordinamento e controlli: Comuni piccoli e piccolissimi non attrezzati nelle strutture tecniche, litigiosi e fragili rispetto alla prepotenza degli interessi privati, che hanno gestito ciascuno decine e centinaia di miliardi. Primi beneficiari i tecnici dell'edilizia potenti e famelici, ingegneri e architetti che hanno dato sfogo al loro ego».

Le eccezioni fanno risaltare la regola che De Lucia rammenta con amarezza. «Erano gli anni '80 del liberismo sfrenato, quando complice la Corte Costituzionale si è smontato un intero apparato legislativo che tutelava la pianificazione per sancire il diritto fare quanto ognuno volesse. sottolinea Ma così si è contribuito a riempire colline e montagne di ville e villette e a svuotare i nuclei storici. Una pratica che per altro si è ripetuta pure all'Aquila. Il fatto è che in Italia è sempre difficile apprendere una lezione. Non è in questo modo che si tutelano i diritti delle persone. Non con uno scempio che chiamano ricostruzione».

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