«I miei morti eterni», a Napoli l'ultimo segreto ​del Pietrificatore

«I miei morti eterni», a Napoli l'ultimo segreto del Pietrificatore
di Vittorio Del Tufo
Domenica 17 Aprile 2022, 10:49 - Ultimo agg. 19:12
6 Minuti di Lettura

«Adoro gli esperimenti folli. Li faccio in continuazione» (Charles Darwin)

Ombre. Sono ombre che riemergono dal passato quelle che popolano l'antico Convento di Santa Patrizia, sede del Museo Anatomico di Caponapoli. Ombre che ci parlano dalle teche di legno dell'antico istituto di anatomia, e dai nostri luoghi più oscuri. Scheletri, mummie, cere anatomiche, ma anche circa 150 feti malformati conservati in formalina, crani datati dal I al XIX secolo. Pezzi da museo, oggi a disposizione degli studenti e dei visitatori provenienti da tutto il mondo, che fanno parte della stupefacente collezione del museo anatomico dell'Università Vanvitelli. Un piccolo scrigno scientifico e culturale poco conosciuto dai napoletani, eppure ricco di preziose testimonianze del passato - secoli di ricerca scientifica sul corpo umano - ricostruite grazie ai reperti donati dai più famosi anatomisti del mondo. Un luogo della memoria, dunque, che l'Uovo di Virgilio intende celebrare a partire dalla singolare figura di Efisio Marini, soprannominato il Pietrificatore proprio per le sue ricerche nel campo della conservazione di cadaveri e parti anatomiche.

Siamo alla metà dell'Ottocento. La storia del Pietrificatore ha inizio a Cagliari, città natale di Marini. Qui lo studioso, appassionato di paleontologia e tecniche di mummificazione, ottiene un posto di assistente al Museo di storia naturale. Incarico che gli consente di dedicarsi alla ricerca, elaborando un metodo - del tutto originale - di mummificazione che permette di pietrificare i cadaveri senza effettuare tagli o iniezioni sui resti umani, ma anzi conservando il colore e la consistenza originali dei corpi. Marini comincia operando sul braccio di un cadavere e, con tenacia, ottiene i primi risultati: il dottor Efisio riesce ad arrestare il processo di decomposizione, ma anche a conservare l'elasticità dei muscoli e dei tessuti.

Spinto da questi primi successi, decide di estendere i suoi esperimenti all'intero corpo umano.

Ma l'ambiente gli è ostile. Anziché guadagnare l'ammirazione del mondo accademico, Marini incassa il pregiudizio vagamente superstizioso di quanti gli sono accanto. Il carattere non lo aiuta: schivo, saccente, abituato a lavorare in solitudine, comincia a frequentare l'obitorio del cimitero, quasi sempre in segreto per non spaventare i visitatori con i suoi esperimenti. Considerato alla stregua di un negromante dall'ambiente accademico, a trent'anni getta tutti i suoi macabri reperti in mare e, nel 1865, si trasferisce a Parigi.
Qui trova un ambiente più aperto e ottiene i primi riconoscimenti internazionali.

Nel 1867 viene invitato all'Esposizione Universale dove si esibisce in una performance straordinaria: riesce a pietrificare il piede di una mummia egizia rendendolo di nuovo flessibile e restituendogli la consistenza di un cadavere ancora fresco. L'imperatore in persona, Napoleone III, impressionato dal risultato di questi esperimenti, lo decora con la Legion d'Onore. Nel 1868 Efisio Marini è accolto a Napoli, dove perfeziona sempre più il suo metodo di pietrificazione e mummifica personaggi celebri come Luigi Settembrini, il marchese d'Afflitto e il pianista e compositore Sigismund Thalberg. Conosce Libero Bovio e Salvatore di Giacomo, lavora come medico presso l'ospedale degli Incurabili. Ma i riconoscimenti agognati, soprattutto quelli accademici, non arrivano, anche perché, caparbiamente, il Pietrificatore si rifiuta di condividere con gli ambienti scientifici il segreto delle sue ricerche. A Napoli Marini si guadagna l'inquietante soprannome di Uomo dei Morti Eterni. E a Napoli muore, nel settembre del 1900, portandosi nella tomba il segreto della pietrificazione dei cadaveri. Tra le opere di Marini conservate nel museo anatomico c'è anche un lugubre tavolino ottenuto con sangue, cervello, bile e altre parti di corpo umano, pietrificate, sormontate dalla mano di una ragazza, pietrificata anch'essa.


Per secoli Napoli è stata all'avanguardia non solo negli studi di medicina (e basta visitare il museo e la farmacia storica degli Incurabili per rendersene conto) ma anche in quelli di anatomia. Una storia antica e gloriosa, il lungo cammino di una scienza che nel corso dei secoli si è affrancata dalla tradizione alchemico-esoterica permeando la cultura bio-medica dell'antica capitale. Il pioniere degli studi sui segreti dei corpi fu un celebre anatomista e chirurgo del Seicento, Marco Aurelio Severino, che istituì presso l'ospedale San Giacomo, poi dismesso per far posto ai Ministeri Borbonici (è l'attuale Palazzo San Giacomo) il nucleo più antico della collezione. Nel 1816 re Ferdinando dispose che la collezione natomica dell'ospedale San Giacomo venisse trasferita nell'antico collegio del Gesù Vecchio, sede dell'università di Napoli dal 1780. Qui confluirono anche i preparati didattici di Domenico Cotugno, mentre la prima riorganizzazione dei materiali anatomici per fini didattici si deve a Francesco Folinea, che successe a Cotugno nella cattedra di Anatomia dell'Università di Napoli. Toccò poi ad altri medici e naturalisti del calibro di Antonio Nanula, creatore del Gabinetto Anatomico, raccogliere il testimone fino all'attuale configurazione del Museo Anatomico Universitario, che iniziò a prendere forma grazie al lavoro di Giovanni Antonelli, docente di Anatomia dal 1870 al 1914. Fu Antonelli a sistemare l'esposizione nell'attuale sede del convento di Santa Patrizia: uno dei musei di anatomia più importanti al mondo non solo per le sue collezioni (più di 350 cere anatomiche, oltre quattrocento esemplari di iniezioni vascolari, trenta pietrificazioni, una collezione di calcoli, più di 500 reperti scheletrologici, una collezione di oltre 150 malformazioni fetali umane) ma anche per la presenza di oggetti singolari e non classificabili, come i due trofei Tsantsas, espressione culturale degli antichi abitanti dell'Amazzonia: i Jibaros, che vivevano lungo il Rio delle Amazzoni, usavano tagliare la testa ai nemici vinti e conservarla come trofeo, dopo averla trasformata in una specie di mummia dalle dimensioni ridottissime.

Nel Museo sono esposte due teche in vetro e ottone, contenenti una il corpo essiccato di una neonata, e la seconda il busto di una giovane donna. Il colorito della pelle è bianco, come di un calco in gesso. La donna è avvolta in un telo, mentre la neonata è distesa in un lettino con un vestito di pizzo.
Anche altri scienziati, come Giuseppe Albini della Regia Università di Napoli, si dedicarono allo studio della mummificazione. Albini, professore di Fisiologia, ricevette dal ministero dell'interno l'incarico di trovare un metodo alternativo al seppellimento e alla cremazione dei cadaveri. A lui si devono gli studi sulla calcinazione, illustrati in un documento presentato nel 1880 all'Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche.


Tra i reperti anatomici conservati nel complesso di Santa Patrizia spicca il cranio di Giuditta Guastamacchia, la sposa fedifraga che nell'aprile del 1800 fu processata e giustiziata dalla Gran Corte della Vicaria per aver assassinato il giovanissimo marito e fatto scempio del suo cadavere, con la complicità del suo amante (un prete!) e di suo padre. I teschi di Giuditta Guastamacchia (e di altri giustiziati correi dell'omicidio) mostrano ancora i segni degli studi frenologici effettuati dal professor Gioacchino Biagio Miraglia, che definì le aree cerebrali proprio in base agli studi sulla frenologia, scienza fondata dal medico tedesco Franz Gall. Il ricordo di Giuditta Guastamacchia sopravvive non solo nel museo anatomico di Napoli, autentico pozzo di San Patrizio per gli studiosi di fisiognomica criminale, uno dei primi tre al mondo per numero e qualità delle collezioni, ma anche nelle antiche leggende di Castelcapuano. Assai macabra quella secondo cui ogni 19 aprile, nei corridoi del vecchio tribunale, si odano i lamenti e le urla di Giuditta, condannata a morte per impiccagione. Testa e mani le furono amputate e messe in mostra in una gabbia di ferro della Vicaria. A futura memoria.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA