«Già 10 anni fa, dopo la morte della collega di Bari, ci siamo detti “mai più”. E invece è accaduto di nuovo». Emi Bondi, presidente della Società Italiana di Psichiatria prova a denunciare le carenze del sistema sanitario, ma fa fatica: «Conoscevo bene Barbara Capovani, per cui c’è anche un dolore personale oltre a quello legato al fatto che si tratta di una collega. Sapere che ha avuto una morte così terribile è angosciante per ciascuno di noi. Smontava da 10 ore di lavoro, con 3 figli a casa, con tutto da mandare avanti. Era una persona molto determinata e preparata, ma che conservava comunque un grandissimo tratto di umanità e di attenzione».
Ha paura anche lei?
«Noi conviviamo con la paura: nel nostro mestiere può capitare che ci siano episodi di aggressività legati a pazienti che in quel momento sono scompensati, quindi hanno un’alterazione della percezione della realtà.
Quali le difficoltà maggiori?
«Dopo di anni di tagli di personale, il numero di psichiatri è diminuito in maniera drammatica, ne mancano circa 2mila. Ma cominciano a scarseggiare anche tutte le figure che lavorano con noi in équipe, dagli infermieri, agli psicologi, gli educatori, l’assistente sociale. Questa carenza drammatica ci ha portato a dover chiudere molti servizi».
Nel frattempo però le richieste sono aumentate?
«Abbiamo avuto un trend in aumento dal 2000, stanno aumentando i disturbi anche per l’uso notevole di sostanze stupefacenti, si è abbassata l’età di esordio, abbiamo sempre più tra i pazienti le fasce giovanili. Il covid, poi, ha fatto da acceleratore: sono cresciuti i disturbi dei ragazzi, i tentativi di suicidio, l’uso di droghe, l’ansia e la depressione e tutte le patologie psichiche in generale».
Chi si dovrebbe prendere cura di questi pazienti?
«Noi abbiamo un servizio pubblico diffuso e capillare. In base alla legge 180 di 45 anni fa, l’Italia rispetto ad altre nazioni europee avrebbe la possibilità di fare psichiatria di territorio, vicina alle persone. Purtroppo, se non c’è personale e non ci sono più gli operatori, questo intervento precoce che dovremmo dare diventa sempre più difficile. Sono anni che lo stiamo segnalando in tutte le forme, abbiamo continuato a dire che siamo a un punto di non ritorno e che i servizi non ce la fanno più a stare dietro ai bisogni che stanno crescendo».
E se poi i pazienti commettono un reato?
«Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari prevista dalla legge 81 del 2014, i pazienti che hanno compiuto un reato in uno stato di alterazione psichica devono seguire percorsi di cura e non semplicemente di custodia. Erano previste le rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, dovevano esserci comunità adeguate, che però sono nettamente insufficienti per quelli che sono i bisogni reali e i numeri dei pazienti che ne necessitano. Abbiamo mille posti di meno, ci sono liste di attesa di mesi per riuscire a entrare nelle rems, anche perché al contrario è aumentato notevolmente il numero di persone a cui la magistratura riconosce che il reato è dovuto a cause psichiche».
Cosa è urgente fare?
«Bisogna ripensare e rivedere questa legge, in termini anche di effettiva applicabilità, individuare percorsi differenziati per i pazienti autori di reato. Bisogna investire di più nei servizi di salute mentale, soprattutto per i servizi territoriali perché possano intercettare, seguire e curare i pazienti psichiatrici. Nel ‘99 la conferenza stato regioni aveva stabilito che il 5 per cento del fondo sanitario regionale fosse destinato alla salute mentale. Oggi siamo ancora al 3 per cento».