Angelo, 25 anni in camice bianco: «Proteggo i figli degli altri»

Angelo, 25 anni in camice bianco: «Proteggo i figli degli altri»
di Maria Pirro
Lunedì 7 Settembre 2020, 09:00
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I capelli di Angelo Ambrosino sono bianchi come il camice che indossa da venticinque anni. Ma non è un medico quest'uomo che si aggira tra reparti e ambulatori di Napoli: ha solo deciso che sarebbe rimasto accanto a suo figlio, tutti i giorni, dove il suo Raimondo è morto si sarebbero ritrovati. Non è mai andato via dall'ospedale, è diventato un volontario per migliorarne le condizioni. «Ho trovato forza nel dolore e nell'amore, il tragico momento si è trasformato in energia permanente al servizio dei deboli e dei sofferenti», racconta con l'emozione di oggi come allora.

«Era una domenica di giugno del 1995, quando fui informato che Dino, 17 anni, era rimasto vittima di un incidente... Investito frontalmente da un autista spericolato, che si era prodotto in un sorpasso in terza fila», ricorda la paura nel libro che riepiloga la sua storia scritto da Anna Aita.

Pronto soccorso, ospedale San Paolo. A due passi da casa a Cavalleggeri. «Svenni. Mi ripresi in fretta: Dino aveva bisogno di me. Ricominciai a carezzarlo. Mi porse l'orologio, lo stesso che continua a scandire il tempo sul mio polso». Un tempo inesorabile. «Non c'era un ortopedico, non si poteva praticare né una radiografia né una tac. E la preoccupazione e il senso di impotenza aumentavano con lo scorrere di un'inutile scansione che non offriva nulla di nulla».

Prosegue Ambrosino: «Fummo costretti a trasferire mio figlio al Cto. Qui, sistemato alla meglio su una barella malandata, caricato su un ascensore obsoleto, si arrivò ai piani superiori, dove fu eseguita una radiografia». La diagnosi immediata: rottura di femore e perone. «Respirai di sollievo». Ma poi Dino fu intubato e trasferito in rianimazione. «Mi informarono che sarebbe stato necessario sottoporlo urgentemente a una tac, che non c'era neppure in quell'ospedale e non era disponibile un'ambulanza attrezzata per andare al Nuovo Pellegrini. L'apparecchiatura più vicina per l'indagine era all'Università, ma di notte era chiusa e non sarebbe stato possibile accedervi se non l'indomani». Il giorno dopo, fu riscontrata una doppia embolia, polmonare e cerebrale, e i medici decisero di mandare il paziente al Nuovo Policlinico per un intervento chirurgico. «Era, oramai, troppo tardi: nemmeno il desiderio di donare gli organi poté essere esaudito, perché risultarono eccessivamente danneggiati dalle terapie. Solo le cornee poterono essere espiantate».

D'improvviso, la narrazione del lutto oscilla intorno al punto critico, un luogo dell'anima: «Guardai stupito il rosso acceso di una rosa che alimentava la sua vita nella poca acqua di un bicchiere», dice Angelo. «Mi parve un insulto al dolore o, forse, un invito a reagire in un momento in cui non desideravo altro che giacere accanto al mio sfortunato ragazzo. Giurai a me stesso che la sua morte non sarebbe stata vana».

Inizia così l'impegno di un padre per proteggere i figli degli altri contro l'inadeguatezza della struttura ospedaliera, carenze di medicinali e attrezzature certificate da un'indagine della Procura che riconosce che le responsabilità di quanto accaduto non dipendono dagli operatori. Per denunciarlo, il papà piazza una tenda davanti a Palazzo Santa Lucia, e fa lo sciopero della fame per oltre una settimana. «La malasanità non poteva e non può attendere, la sofferenza non poteva e non può attendere», mormora Ambrosino che così si ritrova tra i volontari del Tribunale per i diritti del malato fino a fondare l'associazione Salute & Ambiente. Una onlus con una sede operativa al San Paolo, che ha accolto gli studenti delle scuole desiderosi di dare una mano e ha pungolato la Asl, la Regione, il ministero a risolvere tante, troppe questioni: reparti mai aperti, strumenti hi-tech acquistati e non installati, formiche avvistate in corsia già prima delle segnalazioni al tg, incuria e indifferenza, liste d'attesa lumaca. Problemi su problemi riscontrati e resi noti. Ma, a 77 anni Ambrosino, ex disegnatore tecnico in camice bianco per adempiere alla promessa fatta a se stesso, affronta in famiglia una nuova via crucis. Sua figlia adesso è in difficoltà: «Per il vomito, la diarrea, l'incapacità di stare in piedi nemmeno per pochi secondi. A causa del grave malessere è scoraggiata, avvilita, depressa, senza speranza e senza futuro. Dall'ospedale l'ho portata a casa. Io. Uomo. Solo e disperato», scrive il genitore in una lettera il 5 settembre scorso indirizzata ai medici del Pascale che l'hanno in cura. «Come posso sostenere le sue tante esigenze fisiche e immediate e assisterla terapeuticamente e igienicamente (sei episodi di diarrea in un giorno, ora dopo ora, di giorno e di notte; all'una e alle due senza che ne abbia consapevolezza); farmaci da assumere in continuazione... E in tre mesi è stata fatta una sola seduta di chemio. In questo lungo tempo non è supponibile che la massa tumorale sia aumentata?», domanda. E aggiunge: «Vi prego di comprendere la mia situazione in quanto non vorrei essere costretto a sacrificare mia figlia stessa, portandola di peso in direzione sanitaria affinché si possa prender atto della situazione». Venticinque anni dopo, «quanto affermato non è diretto a una singola persona, ma all'organizzazione», avvisa. Ma non può bastare. Oggi come allora.

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