Bogdan Tanjevic, parlo di me: ​«Ho vinto, perso e visto la guerra non si va in Paradiso senza lividi»

Bogdan Tanjevic, parlo di me: «Ho vinto, perso e visto la guerra non si va in Paradiso senza lividi»
di Angelo Carotenuto
Sabato 23 Luglio 2022, 12:00
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I confini sono un concetto vago per quest'uomo del mondo, nato in Montenegro, diventato adulto a Sarajevo, dove la facciata della sua scuola elementare porta ancora i segni delle granate. Boscia, lo chiamano gli amici. Con una Coppa Campioni di pallacanestro, Bogdan Tanjevic anticipò nel 79 la nouvelle vague di Sarajevo: la musica di Goran Bregovic, il cinema di Emir Kusturica, i versi di Abdulah Sidran. «Tutte le città hanno un cuore, solo Sarajevo ha un'anima» ha scritto Mesa Selimovi. E poi trent'anni fa, primavera-estate 1992, cominciò l'assedio. Boscia allenava a Trieste, aiutava i profughi, comprava vestiti, favoriva fughe verso pace e libertà. Lui che in cuor suo, dalla Jugoslavia, non è mai andato via.

Qual è la prima immagine che ricorda dell'Italia?
«I capelli dei ragazzi di Napoli. Ai campionati juniores 1964. Dormivamo in un albergo vicino allo stadio, li vedevo girare sui motorini, belli come la gioventù dei miei 17 anni. Sembravano tanti Jimi Hendrix, guidavano senza l'idea che esistesse un pericolo. Questa gioia di vivere non l'ho più dimenticata».

I capelli dei ragazzi dell'est com'erano?
«Io li portavo corti all'americana, sai come, no? Non bevevo, non fumavo, mai una sigaretta prima di 25 anni. Un asceta. Ma volevo i capelli così. Sono stato il primo a Sarajevo. Gli altri volevano essere i Beatles, avere quel taglio là, erano gli anni di Let Me Do. Avevo la foto di un marine e cercavo in giro chi sapesse farli uguali. Vicino casa mia, in un piccolo salone a sei sedie, c'era un tipo della mia età che spazzava a terra.

Gli chiesi: te la senti? Quando vuoi, rispose. Gli ho portato altri 200 clienti. Un giocatore dietro l'altro. Ha fatto carriera. Era l'ultimo dei barbieri, diventò il più popolare. I saloni erano statali, lui ne aprì uno suo. Ora gli tremano le mani più che a me».

E cosa raccontano i capelli dei ragazzi di oggi?
«A Trieste non diresti mai quanta gioventù c'è. Una città piena di ventenni, aperitivi e telefonini. A 20 anni io pensavo a sudare, oggi stanno molto al cellulare, ma li capisco, lì dentro ci sono mille cose affascinanti. C'è il mondo, c'è compagnia, c'è un amico a 100 km di distanza con cui vedersi. Piace anche a me, faccio un lavoro da comunicatore. Quando ho visto il primo telefono, avevo 7 anni. Era dei vicini. Avanguardia. Si diceva: un giorno potremo chiacchierare guardandoci. È successo prima di quanto pensassi».

Qual è la prima cosa da insegnare ai ragazzi?
«Come sopportare e affrontare la sconfitta, sognando di essere vincitori la prossima volta. Ho educato a riconoscere il merito dell'avversario, a non lamentarsi per aver giocato male. Non si offusca la gioia dell'altra parte. Ho insegnato a preparare una faccia per i momenti tristi, a non piangere, non cercare alibi. Nessuno ti salva. Gianni Agnelli diceva che sotto le bombe, si può giacere o stare in piedi. Le chance di morire sono le stesse, ma stando in piedi si fa più bella figura. Mi son comportato sempre così. A inizio anno dicevo: vinceremo scudetto. Oggi dagli allenatori non senti altro che lamenti e scuse».

È per paura del fallimento?
«Ma quale fallimento? Sono i discorsi tossici dei giornalisti. Quando dite: si è preso la responsabilità del tiro. Uno che tira un pallone a canestro, quale responsabilità si è preso? Se sei libero, in equilibrio, con degli schemi preparati, ti tocca. Quello devi fare. Tirare. Una volta, quattro, cinque. E ti tocca sbagliare. Nemmeno Michael Jordan li ha segnati tutti. Non servono discorsi, non servono motivazioni. Non ho mai preso un appunto. Ho tutto nella testa. E improvviso».

Cosa pensa di tanta fragilità psicologica tra i campioni?
«Non la capisco. Non si può andare in Paradiso senza lividi. Non posso sentir dire: manca determinazione. È un'altra delle vostre invenzioni, un'altra parola masticata, imbruttita. A me interessa lo sport nella sconfitta. Ho perso 5 finali di Coppa Kora, un record. Sai quanto mi manca quel trofeo? Ma ho potuto insegnare ai giovani il desiderio di migliorarsi e che due dolci grandi sono meglio di uno piccolo. Dai loro un'occasione e ti seguono. Non tradiscono. Non ho mai visto qualcuno retrocedere perché aveva un giovane in campo. Ho visto invece stelle di 35 anni giocar male, perché conoscono la paura e la portano in campo quando è il momento - come dico io - di sbarco in Normandia».

Nell'estate di 30 anni fa lo sport escluse la Jugoslavia in guerra, oggi accade ai russi. Che ne pensa?
«Non è giusto. Siamo figli dell'Antica Grecia, dove le guerre si fermavano per le Olimpiadi. Ma la Jugoslavia fuori dallo sport, era mille volte meno importante dell'odio e dei morti. Soffrivo per quello. Ho trascorso una parte della vita aspettando qualcosa di miracoloso che fermasse la vergogna della distruzione di un Paese serio, per farne nascere 6-7 più piccoli. Nei Balcani non è il 2022. Siamo in ritardo di trent'anni. Sento miei tutti i Paesi, come figlio della Jugoslavia, che già mi sembrava piccola da unita. Per questo mi affascinò la grande Italia. Mi dissi: resto 10 anni e torno. Ho visto distruzione e sono rimasto. Trieste è la mia casa per sempre. I russi li lascerei giocare, senza punirli per cause che non possono controllare. Lo sport è dove si fa una scazzottata e ti abbracci in tre secondi».

Come fu possibile nel 1981 avere il Ct della Jugoslavia a Caserta?
«Sono caduto dal cielo. Tutti i Ct avevano un tetto allo stipendio. In due anni ero pieno di debiti. Mia moglie aveva smesso di giocare, aveva tenuto lei sulle spalle la famiglia. I dirigenti volevano convincermi a restare, per svecchiare dopo Kianovi, Delibai, osi, Dalipagi. Ma i soldi non bastavano più nemmeno per la Golf Diesel e le mie sigarette di bassa classe. Ho avuto la fortuna di incontrare il presidente Maggiò, il povero Sarti e Caserta. La partita d'addio di Oscar è stato il momento più bello. Lui che piange e il palazzo canta quella canzone meravigliosa di Oj vita, oj vita mia».

Come sono stati i suoi giorni a Caserta?
«È stato come vivere in Sarajevo o in Belgrado, dove puoi entrare dal tuo vicino senza suonare e fumare in casa sua. A Milano sono stato due anni in albergo e sarò andato dieci volte in centro. Se dovessi tornarci, non saprei come muovermi, che strada fare, dove mangiare. Gli italiani hanno il più grande cuore che io conosca. Ti vogliono bene anche se sei di un'altra religione. La cosa che più mi colpì all'arrivo erano i bambini che potevano saltare sulla tavola al ristorante. Tutti amano i bambini».

Dodici anni fa le fu diagnosticato un tumore. Non eravamo social, non lo condivise, non ne ha parlato. Che pensieri faceva?
«Ero Ct della Turchia, il presidente disse: vai in America. Risposi: qui ci sono medici e ospedali eccellenti, ho fiducia in voi. Il popolo turco è sentimentale. Sente il dolore altrui. Era il posto migliore per curarmi. Ero come un giocatore sotto di 4 falli fuori casa. Non ho mai ricamato storie sulla malattia. Ho fatto terapie anche mentre allenavo a Roma. Senza pubblicità. Non riuscivo a camminare, non riuscivo ad abbottonare la camicia. Non ho avuto paura, non c'è stato tempo di scoprirla. Dovevo lavorare. Ho smesso di pensarci, sai».

Dopo tutti questi anni, ha capito chi è un maestro?
«I maestri veri sono gli uomini e le donne che hanno guidato il mondo verso il bene. Io sono stato un insegnante, questo mi sono sentito. È una bellissima parola. Un bellissimo lavoro. Agli occhi di un ragazzo, è impossibile essere più di un insegnante. Purtroppo esistono anche professorini». 

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