Martina Cannavaro e il padre Fabio: «Io allo stadio col burka per vedere mio papà a Dubai»

Martina Cannavaro e il padre Fabio: «Io allo stadio col burka per vedere mio papà a Dubai»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 12 Marzo 2021, 12:00
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Il periodo che la giovanissima Martina ricorda con maggiore entusiasmo è quello trascorso in Cina dove - chiusa nel 2011 una brillante carriera da calciatore, che lo ha visto autentico fuoriclasse della difesa - Fabio Cannavaro intraprese quella di allenatore. La chiamata tanto attesa arrivò, per l'ex difensore centrale, nel novembre 2014 quando - su espressa volontà del suo predecessore Marcello Lippi - venne nominato allenatore del Guangzhou Evergrande, la squadra di calcio della città di Canton.

Valigie pronte e via verso l'Oriente, dunque.
«Esperienza straordinaria.

Benché avessi viaggiato abbastanza per seguire mio padre in giro per il mondo, in Cina mi sono trovata veramente bene».

Quanto tempo hai vissuto lì?
«Circa sei mesi a Tianjin, nel Nord-est del paese, e poi due anni e mezzo a Guangzhou, a sud della provincia dello Zhejiang. Papà vive ancora lì».

Quando sei tornata in Italia?
«Rientrammo tutti, la famiglia intendo, a dicembre 2019 per passare qui a Napoli le vacanze di Natale. Il Covid però ci ha impedito di ripartire così come avevamo previsto: a gennaio riuscì a andar via solo lui. Lo abbiamo rivisto dopo quasi un anno, a dicembre».

Nessuno è mai riuscito a raggiungerlo in Cina?
«Solo mia madre, e con grandi difficoltà, io e i miei fratelli invece no. È stato un periodo assai difficile: oltre al dispiacere di vivere così lontani da lui, abbiamo anche dovuto riprendere la nostra vita qui a Napoli, a cominciare dalla scuola. A me mancava solo l'ultimo anno».

Che scuola frequentavi in Cina?
«Quella internazionale. L'italiano non l'ho mai studiato, sempre tutto in inglese. Avevo cominciato così a Dubai - quando papà firmò un contratto con l'Al-Ahli, il maggior club della città e ci trasferimmo a vivere lì - e ho proseguito a Guangzhou».

Meglio la Cina degli Emirati Arabi?
«Molto meglio. In Cina ero libera, a Dubai ogni volta che uscivo mi dovevo mettere perfino il burka. Ho pure i capelli biondi, mai avrei potuto circolare con la testa scoperta».

Quanti anni avevi?
«Tredici, forse quattordici. L'unico posto davvero sicuro era il parco dove vivevamo. Solo in quel posto ero autorizzata a togliermi il burka. A volte mi sentivo veramente oppressa, eppure a Dubai ci siamo rimasti quattro anni, ma papà riusciva sempre a tirarmi su il morale».

Quanto tempo trascorrevate insieme?
«Abbastanza. Io poi l'ho sempre seguito anche allo stadio. L'atmosfera, il tifo, i cori... Ancora oggi, con papà in campo, mi emoziono. Peccato che quando è stato campione del mondo con la nazionale italiana ero troppo piccola per apprezzarlo come mi sarebbe piaciuto».

Che ricordi hai di quell'epoca?
«Uno su tutti: la quantità di gente che ci seguiva ovunque. Un'estate in Sardegna non potevamo mettere il naso fuori di casa che arrivavano tifosi, fotografi, giornalisti, di tutto».

E tuo padre? Come reagiva?
«Cercava di essere sempre gentile e disponibile. Firmava autografi, si lasciava fotografare volentieri. E però a volte era stanco anche lui».

Troppa invadenza?
«Arrivavano ovunque e a tutte le ore. I momenti in cui la nostra famiglia poteva stare insieme, lontano da occhi indiscreti, erano rarissimi».

Il prezzo della popolarità.
«A Napoli poi non ne parliamo: la guerra. Ogni tanto mi ingelosivo proprio. Ricordo che c'era una tifosa che lo seguiva ovunque, ma sul serio, non ha perso una sola partita per anni. Si è arresa, finalmente, quando ci siamo trasferiti in Cina»

Tifosa molesta?
«Più che molesta, appassionata direi. Ma come lei ce n'erano tante, e tanti. A modo loro anche educati. È chiaro che il mio tentativo di bambina era quello di proteggere il suo papà».

Il tifo cinese invece come funziona?
«Completamente diverso. Tranquillo, per nulla invadente. Anche quando chiedevano di scattare una foto, lo facevano sempre con grande pacatezza e rispetto, nel tentativo di disturbare il meno possibile».

E al gol? Il classico urlo da stadio?
«Sì, certo ma dimenticate l'esultanza alla quale siamo abituati qui in Italia: la Cina è un altro mondo».

Ti manca quel paese?
«Un po' sì. Anche il cibo mi piaceva molto. Insomma, almeno la scuola l'avrei finita. E poi Guangzhou è una città sicura, avevo molta libertà: i miei genitori sapevano che non c'erano pericoli e mi lasciavano uscire senza problemi. Ricordo che passavo intere giornate fuori di casa a fare sport».

Mica giocava a pallone?
«Basket e pallavolo, soprattutto, ma anche a calcio me la cavavo niente male. Con papà, e miei due fratelli, giocavamo perfino in casa. Io - parola di Fabio Cannavaro - ero sempre la più forte». 

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