Qualcuno era gaberista: le due vite del signor G.

Il regista Milani racconta il docufilm nelle sale per tre giorni

Giorgio Gaber
Giorgio Gaber
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Lunedì 6 Novembre 2023, 08:07 - Ultimo agg. 09:07
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Alla fine quasi tutti gli intervistati - la moglie Ombretta Colli, la figlia Dalia, i nipoti, Sandro Luporini, Massimo Bernardini, Pier Luigi Bersani, Bisio, Capanna, Jovanotti, Dal Bon, Fazio, Fossati, Ricky Gianco, Gino e Michele, Paolo Jannacci, Mogol, Mollica, Morandi, Pani, Serra... - siedono in teatro a riveder le stelle, a risentire il signor G. I loro volti, il loro canticchiare sull'onda di un'emozione chiamata memoria, le loro lacrime di commozione, i loro sorrisi di partecipazione chiudono nel migliore dei modi «Io, noi, Gaber», il docufilm di Riccardo Milani in uscita oggi come evento nelle sale cinematografiche, dove resterà per tre giorni, dopo l'anteprima alla Festa di Roma.

Romano, classe 1953, autore di «Come un gatto in tangenziale», Milani poteva sembrare lontano dal milanesissimo mondo dell'uomo di «Far finta di essere sani», scomparso ormai vent'anni fa, l'1 gennaio 2003. Invece il documentario si apre proprio rievocando l'universo meneghino in cui sboccia la prima vita di Giorgio Gaberscik, pioniere del rock and roll (suonato con i jazzisti) e della canzone meno ovvia, nonché teledivo popolare. I repertori d'archivio, da «Ciao ti dirò» agli incontri con la regina Mina, il re Adriano Celentano e il supremo Enzo Jannacci, e le interviste realizzate per l'occasione raccontano una prima svolta nella canzone italiana, che scopre il ritmo che arriva dall'America e dà voce ad un universo giovanile fino a quel momento ignorato, ma, nello stesso tempo, anche ad una Milano popolare ed in estinzione: «Be bop a lula» e «Trani a gogò», «Una fetta di limone» e «Porta Romana». Gaber è superstar del tubo catodico, impone alla Rai democrista canti anarchici e fa debuttare Franco Battiato, forte di numeri di varietà che hanno fatto la storia della tv italiana.

Nel 1966 si concede persino il Festival di Napoli, arrivando secondo (con Aurelio Fierro), grazie a «'A pizza», di Alberto Testa e Giordano Bruno Martelli, dietro sua maestà Sergio Bruni. «Con la città di Napoli aveva un rapporto veramente speciale», ricorda Milani: «Non a caso è stata l'unica città del Sud nella quale ha rappresentato tutti i suoi spettacoli». Diana ed Augusteo i «suoi» teatri, le sale partenopee dove lo abbiamo applaudito, aspettando quell'esplosione finale, grida e gesti disarticolati di giubilo forsennato. Ma non anticipiamo i tempi, eravamo ancora alla prima vita di Giorgio.

La seconda inizia con una lenta presa di coscienza, artistica (la passione per la chanson, Brel in testa) e politica, con la confessione del disagio provato davanti alle telecamere. Il 1970 è l'anno della nuova svolta, per lui e per la canzone italiana. Con Sandro Luporini, pittore viareggino, aveva già scritto «Barbera e champagne», il varo del signor G. è frutto di discussioni, di un addio «all'intronata routine del cantar leggero» (copyright Panella per Battisti), di una volontà di immergere il proprio canto libero, anzi liberissimo e bastian contrario, nella tensione politica di quegli anni. Il teatro-canzone nasce sul palcoscenico prima di approdare su disco, ed ogni lp vale doppio, se quel titolo lo hai visto dal vivo, scritto nel corpo, oltre che nella voce e nella chitarra, di un mattatore scenico assoluto. «Dialogo tra un impegnato e un non so» (1972), «Far finta di essere sani» (73), «Anche per oggi non si vola» (74), «Libertà obbligatoria» (76), «Polli di allevamento» (78)... scavano nell'Italia che va a sinistra, non a caso Capanna, soprattutto, e Bersani, commentano quel periodo, che guarda con empatia al movimento giovanile che esplode, ma prendendone le distanze quando serve, perché «quando è moda è moda... quando è merda è merda», urla. In quella scia verranno anni amari, il rannicchiarsi nel privato («Chiedo scusa se parlo di Maria») dopo aver visto rattrappirsi il sogno della rivoluzione, della libertà che non è star sopra un albero. «Qualcuno era comunista» racconta, con ulcerata commozione, la fine di quella stagione meglio di qualsiasi libro, film, trattato, convegno. «Destra-sinistra» e «La mia generazione ha perso» estremizzeranno quel discorso negli ultimi anni di vita, non a caso segnati (anche) dal ritorno al rock and roll, ai compagni di sempre: Fo, Jannacci e Celentano, storica quella televersione di «Ho visto un re».

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«Volevo rendere a Gaber qualcosa di quello che mi ha dato», spiega Milani, «non l'ho conosciuto, ma ho visto i suoi spettacoli e consumato i suoi dischi, gli devo, come tanti, parte della mia eduzione sentimental-politico-culturale. Mi ha spiegato, forse per primo e meglio di tutti, il bisogno di approfondire, scavare, parlare dopo aver riflettuto a lungo. Cantante, chitarrista, attore straordinario si mise al servizio del racconto dei suoi tempi, ma quello che ci ha lasciato è una lente con cui possiamo leggere anche i nostri tempi. Forse per questo alle anteprime del docufilm ho visto tanti giovani, stupiti che sia esistito un signor G, come di quelle immagini di cortei, di lotte, di discussioni tra parti così vicine, così lontane». Qualcuno era «gaberista» e, per fortuna, lo è ancora. O come dice Mollica, e come suggeriva Jannacci, nessuno ha perso quando parla Gaber.

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