«Un ritratto in movimento. Omaggio a Mimmo Jodice», intervista a Mario Martone

«Non saremmo gli artisti che siamo senza la potenza delle visioni di quegli anni a Napoli»

Mimmo Jodice
Mimmo Jodice
di Titta Fiore
Venerdì 22 Dicembre 2023, 07:00 - Ultimo agg. 23 Dicembre, 13:09
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Ci sono le parole e c'è lo sguardo. Le parole raccontano momenti, epoche, memorie. Lo sguardo trasparente di Mimmo Jodice costruisce mondi. Nel bel documentario che Mario Martone gli ha dedicato, «Un ritratto in movimento. Omaggio a Mimmo Jodice», le testimonianze di artisti, galleriste e intellettuali che hanno incrociato il cammino di uno dei più grandi fotografi dei nostri tempi s'intrecciano con i preziosi ricordi di Angela, molto più di una compagna di vita, al fianco del maestro sempre e per sempre. Con lei e con Francesco Vezzoli, Antonio Biasiucci, Marino Niola, Stefano Boeri, Lia Rumma, Lucia e Laura Trisorio, Andrea Renzi, le scelte, le passioni, le intuizioni di Jodice prendono via via corpo nel raffinato bianco e nero di straordinarie immagini d'archivio. E soprattutto c'è lui, Mimmo, al centro di tutto il progetto, con il suo sguardo sciamanico sulla realtà, trasfigurata da una sensibilità potente e tenera capace di andare oltre il tempo. Prodotto da Carolina Terzi, Lorenza, Luciano e Carlo Stella per Mad Entertainment in collaborazione con Rai Documentari, già presentato in anteprima al Festival di Torino, «Un ritratto in movimento» si vedrà oggi su Raitre in seconda serata. Martone, che ha scritto il film con Ippolita Di Majo, spiega di aver voluto fare un viaggio all'interno delle opere di un grande artista: «Ho lasciato parlare le immagini».

Da dove è partito?
«L'idea nasce in maniera naturale, Roberto Koch mi ha chiesto un corto per la mostra “Senza tempo” dedicata all'arte di Mimmo alle Gallerie d'Italia a Torino.

Lo abbiamo fatto, e questa figura di veggente che ha visto tanto, la profondità azzurra del suo sguardo, le sue mani che si muovevano nella camera oscura con gesti sapienti mi hanno colpito profondamente. Così ho deciso di andare avanti».

L'omaggio all'artista e alla sua formazione in tempi napoletani fervidi di creatività, quali erano gli anni Settanta e Ottanta, diventa allo stesso tempo la rievocazione diun'epoca straordinaria che è stata anche la sua.
«C'è una ragione precisa dietro questa scelta, e non è dettata dalla nostalgia, un sentimento che non mi appartiene. Per formazione culturale sono proiettato verso il futuro e il mio lavoro lo testimonia, tuttavia mi sento diviso a metà tra due secoli e mi sembra importante ragionare dialetticamente su certi temi».

Sulla fotografia che idea si è fatto?
«Oggi tutti facciamo foto e filmati, l'accesso alle immagini è diventato democratico al massimo livello. Eppure, a fronte di questo, vedere il lavoro di un maestro che impiega tre giorni per uno scatto diventa ancora più interessante. Perché ci dice che la qualità del lavoro fa ancora la differenza. Per Mimmo la macchina fotografica è uno strumento del pensiero, lo sguardo viene prima dell'immagine. Il suo percorso non è solo una grande testimonianza su ciò che è stato, ma un'indicazione sul futuro».

In una bella foto vi inquadrate reciprocamente davanti al mare, lei con la cinepresa, Jodice con la la macchina fotografica.
«L'ha scattata Ippolita, l'idea è stata sua e Mimmo ha accettato di buon grado. Ho voluto che il documentario fosse asciutto, essenziale, senza musiche, tranne che in una scena. Il silenzio è essenziale per osservare le foto di Mimmo. Lui le concepisce nel silenzio ed è bene guardarle alla sua stessa maniera».

Tra poco Jodice compirà novant'anni e alla fine del film dice: «Vorrei ricominciare da capo».
«Un artista è un bambino che riesce a trattenere l'infanzia dentro di sé. Per tutta la vita gioca, ed è un gioco molto serio. Per un artista il tempo non esiste. Sentire Mimmo pronunciare quelle parole che per certi versi appartengono anche a me è stato molto emozionante».

Sullo sfondo del documentario il fermento creativo della Napoli di Beuys e Wharol, di Kounellis e Vito Acconci, della sperimentazione e dei linguaggi che si fanno impegno sociale e politico.
«Tutti dobbiamo molto all'arte visiva. In quegli anni con Toni Servillo frequentavamo la galleria di Lucio Amelio, ricordo che un giorno Lucio ci chiamò per andare a visitare l'antro della Sibilla cumana con Joseph Beuys. Avevamo diciassette anni, andammo e fu una grande esperienza. Cose come questa ci hanno segnato. Non saremmo gli artisti che siamo diventati senza la potenza delle visioni di quegli anni a Napoli». 

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