Bono al teatro San Carlo di Napoli: «Io nella città dei campioni»

Bono si racconta dall'interno, è voce di dentro di una narrazione a tratti drammatica e a tratti sdolcinata

Bono al teatro San Carlo
Bono al teatro San Carlo
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Lunedì 15 Maggio 2023, 07:00 - Ultimo agg. 16 Maggio, 07:34
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È un ben strano spettacolo quello con cui Bono espugna il San Carlo da tenore postmoderno e postrock, con il teatro per coprotagonista, o almeno primo complice, persino più delle percussioni di Jacknife Lee, del violoncello di Kate Ellis e dell'arpa di Gemma Doherty che, con tappetti tastieristici ed elettronici vari, svestono e rivestono i classici degli U2 con l'unica certezza di allontanarli dal rock, ammesso che la parola oggi abbia ancora un senso.

Stories of surrender, tratto dal quasi omonimo libro autobiografico, va in scena per l'ultima volta a Napoli: non è un reading e non è un concerto, sembra piuttosto un viaggio al termine della notte, delle paranoie di un ragazzo di Dublino diventato uno dei rocker più famosi del mondo, dei suoi drammi e melodrammi, delle sue gioie e delle sue malinconie. La messinscena è essenziale: un tavolo, qualche sedia, i disegni dello stesso Vox proiettati ogni tanto sullo sfondo sotto la direzione di Gavin Friday, amico di una vita e voce dei mai sufficentemente lodati Virgin Prunes.

Bono si racconta dall'interno, è voce di dentro di una narrazione a tratti drammatica (la sua operazione al cuore nel 2016) e a tratti sdolcinata (la storia d'amore con Ali, prima fidanzata e poi moglie), ora straziante (la morte della madre da bambino, la morte del padre nel 2001) e ora ironica (la presentazione dei compagni di band The Edge, «un tipo che avrebbe voluto la testa a forma di chitarra», Adam Clayton, «un Sid Vicious aristocratico», e Larry Mullen jr, «la controfigura in negativo di Bob Marley», poi ringraziati come se fossero presenti), sospesa tra demonio e santità.

Il diavolo è lo spirito punk che anima la nascita della band, l'illuminazione provata ascoltando i Ramones di «Glad to se you go», una canzone così semplice e diretta, racconta lui in estasi, che «potevo cantarla anche io, scriverla anche io».

Sesso e droga però non abitano qui, c'è solo il vecchio (mal)sano rock and roll, con omaggi a sua maestà Dylan, a Marley, ai Clash.

La santità è impossibile, ma almeno intuita nell'incontro con Giovanni Paolo II all'epoca della campagna «Giubileo 2000»: «Portiere in gioventù era diventato un marcatore, il nostro Osimhen». Già, perché il sessantatreenne Paul David Hewson sa bene dove si trova, e se il suo invito a un dress code elegante e scuro inibisce (quasi) lo sventolio di stendardi azzurri, ci pensa lui a inizio serata a mettere le cose in chiaro. Ha appena iniziato con «City of blinding lights» quando saluta la sala strapiena: «Live from teatro San Carlo, in the city of campioni. Siete bellissimi». 

Sistemata la captatio benevolentiae, la narrazione procede per flashback, viaggia nel tempo senza inseguire una cronologia impossibile. È come se i ricordi venissero a galla con le canzoni, o viceversa. «Vertigo» è intonata in ginocchio, «With or without you» davvero fa un'impressione diversa sottolineata da arpa e violoncello più un background elettronico, così lontana dall'inno da stadio rock di un tempo. Il rapporto con papà Robert è come un tormentone, uno spettacolo nello spettacolo: ogni tanto l'irlandese si siede, prende una pinta di (finta) Guinness e ritorna alla Sorrento lounge, la saletta dell'amato pub Finnegan in cui la domenica tentava di dialogare con il genitore. Che gli chiedeva sempre: «C'è qualcosa di nuovo, di strano?». Ma non voleva sapere nulla dal/del figlio, solo ribadire le proprie convinzioni e «superiorità». Persino una telefonata di Pavarotti non lo stupiva («Ha sbagliato numero?»), persino la possibilità di incontrare la principessa Diana lo trovava riluttante («Piuttosto che vedere qualcuno di una famiglia coronata, soprattutto quella, preferirei un rendez vous con il vincitore della lotteria»). Solo che poi di fronte a big Luciano si sciogle come qualsiasi tenore di questa terra, e a Lady D come uno scolaretto folgorato di amore per la maestra. «Ottocento anni di oppressione cancellati in otto secondi», commenta amaro l'uomo di «Sunday bloody sunday», uno dei momenti più alti della serata. Il violoncello sostituisce la batteria, alla fine spuntano versi inediti: «La religione è nemica della guida dello Spirito Santo/ e la battaglia è appena iniziata/ Dov'è la vittoria che Gesù ha vinto?».

 

I dubbi di un credente, di un fedele, di un cattolico figlio di una protestante, nell'Irlanda in guerra, ma anche nella guerra del successo, mettono in crisi la sopravvivenza stessa del gruppo: «Volevamo cambiare il mondo e divertirci nello stesso tempo, ma sembrava peccato». Non era peccato, ma divenne problematica anche la stagione dell'impegno politico, da attivista, iniziato in qualche modo con il «Live aid». Bono rivendica quel momento, i 250 milioni di dollari raccolti, l'esperienza in Etiopia che gli permette di comprendere davvero che cosa fosse la fame e come il debito sia la leva di ricatto dei paesi ricchi contro i paesi che hanno fatto diventare poveri.

«Out of control», «I will follow», «Desire», «Beautiful day» (anche qui spuntano parole inedite: «la risata è la prova della libertà») puntellano i monologhi, tradotti sullo schermo a fase alternata, con «Pride (In the name of love)» ad alzare ancora l'amletico dilemma su quanti misfatti ancora saranno celebrati nel nome dell'amore.

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La chiusura ci riporta nella Sorrento lounge. Bono alla morte del padre ha scoperto di essere diventato un tenore, non più «un baritono che si credeva un tenore». E lo dimostra, intonando, in napoletano un po' claudicante, «Torna a Surriento», bissata due volte, anche a favore delle telecamere di Apple Tv e di un docufilm che verrà. Alla fine il ringraziamento va a Big Luciano, alla sua vedova Nicoletta Mantovani e sua figlia Alice, anche loro in sala. E al San Carlo e a Napoli di cui si è innamorato e da cui riceve in cambio l'inno corale di «'O surdato nnammurato». Stringe le mani sul cuore, guarda in alto, si gode lo spettacolo e va via. Felice, forse persino commosso.

Ps. Gli U2 inaugureranno la loro residenza allo Sphere di Los Angeles il 29 settembre per rifare «Achtung Baby». Senza Larry Mullen, in attesa di operazione alla mano, sostituito da Bram van den Berg. 

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