Bruce Springsteen, nuovo album Only the strong survive: ​amarcord nell'era della Stax & Motown

L'album in uscita oggi non resterà nella storia del soul ma ci consegna una delle migliori prove vocali di tutti i tempi del rocker

Bruce Springsteen, l'uomo che chiamammo Boss
Bruce Springsteen, l'uomo che chiamammo Boss
di Federico Vacalebre
Venerdì 11 Novembre 2022, 07:00 - Ultimo agg. 18:10
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Meno enciclopedico del «masto» Bob Dylan, 81 anni, che ha appena messo nero su bianco la sua fenomenologia della popular music, il «masticiello» Bruce Springsteen prova a ricapitolare per brevi tratti la parabola del soul, ma anche a togliersi uno sfizio importante per la sua carriera. Paradossalmente, «Only the strong survive», l'album in uscita oggi, non resterà, infatti, nella storia del soul, del funky, del rhythm and blues, insomma della «great black music» americana, ma ci consegna una delle migliori prove vocali di tutti i tempi del rocker: «Ho speso la mia vita lavorativa al servizio delle mie canzoni, confinata dai miei arrangiamenti, le mie melodie, le mie composizioni, le mie costruzioni. La mia voce veniva sempre per seconda, terza o quarta cosa dopo tutto questo», conferma lui.

Che coglie così l'occasione di cesellare prove vocali memori di quando, sedicenne, si misurava con gli hit del periodo, in una scalcinata sala prove o nei peggiori bar del New Jersey. Lui assicura di essere emozionato dal canzoniere adottato come allora, ma l'ormai maturo controllo vocale gli permette performance corpose e incisive, senza dover strappare per forza, come nelle epiche cover dal vivo che lo hanno reso celebre almeno quanto le sue composizioni. 

Il suo incontro con questo sound, ha spiegato a Virgin Radio, risale proprio ai giorni in cui iniziò a suonare, anche se aveva già ascolticchiato qualcosa, e più di qualcosa, dalla radio della madre, la mattina prima di andare a scuola: «Gli ingaggi arrivavano con telefonate che dicevano: suonate Soul man? E Mustang Sally? Impararle di fretta dai dischi era il nostro lavoro, così ho studiato quel repertorio e l'ho cantato molto, molto intensamente in quei giorni.

E il mio approccio oggi è ancora quello che avevo a 16 anni: raccolgo tutto, lo assorbo, lo faccio diventare parte di ciò che sono e di ciò che faccio», per renderlo poi «come dinamite, come ricarica» per chi ascolta», sognando di poter «cambiare il suo modo di vivere». «Only the strong survive» non cambierà il nostro modo di vivere, anche perché a farlo ci hanno già pensato gli originali, a suo tempo, ma chissà che qualche ragazzo della generazione Z non possa farci un pensierino, non possa trovare spunto per un'educazione sentimental-sonora inattesa.

Da cinici vegliardi, naturalmente, archivieremo il disco non senza pensare che sia (anche) frutto di un inaridimento della vena creativa dell'uomo che chiamammo Boss, e che il precedente di «The Seeger session» fosse molto più interno alla poetica springsteeniana di questo secondo viaggio alla ricerca del tempo perduto.

Non brilla la produzione di Rob Aniello, né si capisce perché abbia registrato praticamente lui tutti gli strumenti, ma gli E Street Horns pompano adrenalina nei fiati come loro dovere e sapere, Rob Mathes firma gli arrangiamenti degli archi, i cori sono corposi. Il gioco della nostalgia canaglia è inevitabile, il materiale maneggiato è prezioso ed esplosivo, romantico anche quando è un concentrato di sesso, carnale anche quando si tinge di una tenerezza ormai fuori dal tempo.

Si parte dai favolosi anni Sessanta, probabilmente il brano più antico, oltre che meglio riuscito, è «Don't play that song» (Ahmet Ertegun/Betty Nelson) del 1962, omaggio a Ben. E. King, anche se in Italia qualcuno ricorderà le versioni di Adriano Celentano e Peppino Di Capri e i buongustai quella di Aretha Franklin. E si va avanti sino al 1985 di «Nightshift», singolo di lancio e tributo ai Commodores. In mezzo ci sono i bianchi Walker Brothers («The sun ain't gonna shine anymore»), i Four Tops («When she was my girl» e «7 rooms of gloom»), i Temptations («I wish it would rain»), Diana Ross & The Supremes («Someday we'll be together») Frank Wilson («Do I love you»), il Jerry Butler della title track, firmata con i padri del Philadelphia Sound Kenny Gamble e Leon Huff, ripresa anche da Elvis Presley: «Ricordo il mio primo amore, in un modo o nell'altro l'intera dannata faccenda andò storta», recita il parlato iniziale, per ricordarci che abbiamo iniziato tutti a fare l'amore nella stessa pasticciata, esaltante, maniera. Di Butler spunta anche «Hey, Western Union man», ma non mancano nomi meno noti dalle nostre parti come Jimmy Ruffin («What becomes of the brokenhearted», poi ultimo n. 1 in classifica per Diana Ross con le Supremes), Dobie Gray («Soul days», con Sam Moore ospite), Tyrone Davis («Turn back the hands of time»), William Bell («Any other way», «I forgot to be your lover», di nuovo ripresa con Sam Moore).

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Senza rischiare invasioni sui fronti più spirituali del gospel o profani del funky, evitando di sfiorare mostri sacri come Marvin Gaye, Otis Redding, Ray Charles e James Brown, Bruce si concede il personale amarcord nell'era della Stax & Motown che dovrebbe avere qualche coda anche nelle scalette del tour del prossimo anno, quando arriverà in Italia per tre date: il 18 maggio al parco Bassani di Ferrara, il 21 al Circo Massimo di Roma e il 25 all'autodromo di Monza. 

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