Enzo Jannacci, il caposcuola dei cantautori dimenticato

Da caposcuola del cabaret, trasformava ogni numero in un teatro dell'assurdo

Enzo Jannacci
Enzo Jannacci
di Federico Vacalebre
Sabato 25 Marzo 2023, 10:00
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Nemmeno la morte, che in Italia è processo santificatore, almeno nell'immediato, è servita a dare a Enzo Jannacci quel che è di Enzo Jannacci. E nemmeno, se è per questo, il decennale, visto che per il cantautore milanese, scomparso il 29 marzo 2013, non si sono scatenati i «tromboni della pubblicità» (Brassens via Svampa), anche se si parla di un disco con inediti, di un docufilm Rai di Giorgio Verdelli che potrebbe andare alla Mostra di Venezia, di un concerto, «Jannacciamì», il 3 giugno giorno in cui avrebbe compiuto 83 anni, agli Arcimboldi di Milano con Ornella Vanoni, Francesco Gabbani, Diego Abatantuono, Cochi, Paolo e Franz, Paolo Rossi e Massimo Boldi. Poco e tardi. Lui, così laterale, stralunato, sempre altrove, magari in camice invece che a far promozione o darsi le arie da maestro di pensiero, non se ne dispiacerebbe più di tanto, ma è difficile immaginare di storicizzare la canzone d'autore italiana senza tenere in debito conto il suo contributo di portata devastante.

Devastante perché la sua canzone era armata di ironia, ma anche di un surreale nonsense, perché da caposcuola del cabaret trasformava ogni numero in un teatro dell'assurdo, perché è stato il filo di congiunzione tra Renato Carosone e le Storie Tese (non a caso Elio da qualche anno porta in giro un suo show intitolato «Ci vuole orecchio»).

Pioniere del rock and roll, prima con Adriano Celentano al tempo dei Rock Boys e poi con Giorgio Gaber al tempo dei Due Corsari, tra gli artisti con più allori da parte del Club Tenco (quattro targhe e un premio), figlio di un maresciallo dell'aeronautica che partecipò alla Resistenza, nipote di un macedone e una pugliese («terrone come tutti, insomma»), diplomato al conservatorio, cardiochirurgo, Jannacci si sentì sempre «più medico che saltimbanco, anche se per molti miei pazienti ero un saltimbanco e basta».

Ma, in realtà, ha attraversato mezzo secolo di canzone illuminandola con un piglio tutto suo.

Fin dall'inatteso esordio, due 45 giri e due flexy disc abbinati alla rivista de «Il Musichiere», in cui spicca anche un'inattesa versione di «Comme facette mammeta» in un incerto dialetto napoletano.

Clem Sacco, Guidone, Ricky Gianco gli altri compagni di cordata, e serata, di quel periodo, come ricorda il figlio Paolo nel bel libro scritto con Enzo Gentile: Enzo Jannacci. Ecco tutto qui (Hoepli). Ma anche il nascente manipolo dei cantautori, Tenco e Paoli soprattutto. Come se non bastasse, l'Enzino è anche jazzofilo e jazzista, si scatena in jam session con Jerry Mulligan, Chet Baker, Franco Cerry e copia da Bud Powell lo stile pianistico che privilegia (è un eufemismo) la mano sinistra. «L'ombrello di mio fratello» e «Il cane con i capelli» lo fanno precursore del futuro filone demenziale («meglio schizoide», suggerisce lui), mentre Tenco incide la sua romantica «Passaggio a livello», riconoscendo nell'amico un comune tormento espressivo utile a rinnovare anche la canzone d'amore. «Un nano speciale» e «L'artista» lo schierano subito dalla parte degli ultimi, Filippo Crivelli lo arruola in uno storico spettacolo identitario come «Milanin Milanon» per cui inizia a cimentarsi nello scrivere in dialetto, poi Sergio Endrigo e Dario Fo aggiungono spezie nel suo pentolone, come le esperienze cinematografiche: tutto si tiene nel fare musica di Jannacci, con sfolgorante propensione per lo sberleffo.

Nell'album d'esordio, 1964, «La Milano di Enzo Jannacci», c'è già un capolavoro, la commovente storia di un barbone: «El purtava i scarp del tennis», che oggi dà il nome a una rivista di solidarietà proprio per i senzatetto. Poi nessuno lo fermerà più: «Veronica» canta un amore mercenario consumato al cinema, «Sfiorisci bel fiore» una morte in miniera; «La mia morosa la va alla fonte» è basata su una melodia del XV secolo che De André «ruberà» per «Via del campo»; «Sei minuti all'alba» parla del padre e dei partigiani; «Faceva il palo» ride con compassione di mala scasciatissima. Nel fatidico 68 la follia di «Vengo anch'io», inno dell'emarginazione immotivata scritto con Fiorenzo Fiorentini, lo porta per la prima e ultima volta in cima alla hit parade, allora condotta da Lelio Luttazzi. La tv gli apre le porte, ma lui non si fa abbagliare, usa l'ironia per far politica con il Dario Fo di «Ho visto un re»: la censura del brano a «Canzonissima» gli fa tornare voglia di fare il medico, Christian Barnard, autore del primo trapianto cardiaco, lo attende in Sudafrica.

Gli italiani ormai sanno chi è Jannacci, ma lui va per la sua strada, si fa prestare «Messico e nuvole» da Paolo Conte, lavora con Luciano Bianciardi, si diverte con gli amici Cochi e Renato, si assenta per un po' dalla scena musicale, torna nel 1975 con «Quelli che...» e «Vincenzina e la fabbrica»: la prima anticipa le filastrocche di Rino Gaetano (ma anche «Siamo solo noi», assicura Vasco Rossi) e diventa, con pazienza, un classico; la seconda è crudele cronaca di emigrazione, di alienazione operaia. Due anni dopo Mina lo incorona dedicando un album intero al suo repertorio, spingendolo probabilmente al ritorno del 1979, tra concerti e un disco scomodo e lunare come «Fotoricordo». Ancora Paolo Conte, «Sudamerica» e «Bartali»; ancora un classico sarcastico come «Ci vuole orecchio», suo secondo best seller personale. 

Il suo gracchiar cantando è segno distintivo di tour massacranti, cinema e tv continuano a ingaggiarlo, Pino Donaggio gli regala la dolente perla di «Mario». La goliardia è una maschera di disagio, di alterità esistenziale, il dialetto, e quantomeno l'accento milanese una scelta di classe. Ma Jannacci sa che serve leggerezza per dire cose pesanti sotto forma di canzone. Per lui «L'importante è esagerare», magari andando a Sanremo a parlare di droga («Se me lo dicevi prima», 1989;) o di mafia («La fotografia», 1991) o in coppia con Paolo Rossi («I soliti accordi», 1994) o con un titolo come «Quando un musicista ride» (1998). Il figlio Paolino è ormai spalla fidata, «Come gli aeroplani», «L'uomo a metà» sono gli album del nuovo corso, tropo presto interrotto.

Jannacci jr e Gentile (amico, confidente, vicino di casa e di palestra) ricordano e raccontano con tenerezza ma anche e soprattutto con la consapevolezza di dover reimporre al centro del dibattito un cantautore di portata devastante. Provare per credere: basta riascoltare una qualsiasi delle canzoni citate. E molte altre ancora. 

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