Marcello Colasurdo, l'ultima intervista al Mattino sulla violenza a Pomigliano

Il volto e voce storica degli Zezi

Marcello Colasurdo
Marcello Colasurdo
di Antonio Menna
Mercoledì 5 Luglio 2023, 13:51 - Ultimo agg. 13:59
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«Sono pieno di dolore per questa barbarie che ha colpito il nostro fratello africano. Sì, fratello nostro, fratello di tutti noi. Come si fa a uccidere una persona in quel modo? Un nostro amico, un nostro fratello». Non trattiene la commozione, interrompe più volte l'intervista con il pianto, poi riprende sempre il filo, torna a ragionare, ma ritornano anche le lacrime, dentro quel vocione che poi all'improvviso si strozza e diventa muto, un filo di aria. Si vede che il fatto colpisce nel profondo Marcello Colasurdo, 68 anni, volto e voce storica degli Zezi.

Un gruppo che si è definito, fin dalle origini, nel 1975, operaio, per saldare subito la sua arte musicale con l'impegno civile, per dire subito da che parte stare. E Colasurdo non lo ha mai dimenticato. Natali molisani, il cantante è arrivato a Pomigliano all'età di dieci anni. Qui è cresciuto; in queste fabbriche, negli anni Ottanta, ci ha anche lavorato, unendo l'esperienza personale di operaio addetto alle pulizie dell'Alenia - con quella di militante della canzone e dell'arte. Nel 1996 ha poi lasciato il lavoro in fabbrica e gli Zezi, che hanno continuato per la loro strada, incrociando, sul nucleo storico, oltre duecento musicisti, e ha fondato la sua paranza, col suo nome e cognome. Musica popolare, tammorra, origini e terra, sudore e storia. Ma Colasurdo è anche il cinema. Fellini, Piscicelli e poi Martone a teatro. E la collaborazione con Peter Gabriel.

E un look da sciamano, una immagine iconica, da Montevergine alla Madonna dell'Arco. Oggi combatte con alcuni brutti malanni di salute ma il suo spirito è ancora indomito.

Che ne dice?
«È un fatto orribile orribile, quello che è capitato, e fatico anche a trovare le parole per definirlo. Siamo rimasti tutti scioccati. Io l'ho appreso dalla televisione e quando ho sentito che era successo a Pomigliano non ci volevo quasi credere».

Eppure, Colasurdo, è accaduto proprio qui. Come se lo spiega?
«Difficile trovare una spiegazione lucida, logica, a questa violenza, a questa barbarie. Sono cose che lasciano senza parole proprio perché non c'è una spiegazione. Perché fare del male a un fratello africano che non dava fastidio a nessuno, che cercava una sua fortuna, un posto suo nel mondo? La mancanza di una spiegazione crea proprio questo sconcerto. Non si capisce, non si capisce».

Il fatto che ad agire siano stati, come pare, due ragazzini non fa nascere delle domande?
«Certamente aggiunge sconcerto a sconcerto. Sono sedicenni, sembrano pure loro, in qualche modo, vittime di qualcosa di più grande che li sovrasta. C'è evidentemente un problema di educazione, di crescita, di modelli. Dove stanno le famiglie di questi ragazzini? Che cosa hanno alle spalle? Noi questo ci dobbiamo chiedere».

 

È cambiata Pomigliano in questi anni?
«È cambiata molto. Si è svuotata della sua memoria storica, della sua cultura popolare. Noi veniamo dalla memoria dei cortili, che era comunità e ricchezza. I cortili erano la nostra strada ma erano i cortili di una grande famiglia larga, collettiva. La comunità era ricchezza. Noi nei cortili avevamo la presenza, il sentimento, l'educazione collettiva. I grandi ci guardavano e ci dicevano "m'arracumanne, guagliò" ed era più di un monito, era uno sguardo educativo. Noi crescevamo negli asili di comunità. Oggi quali grandi sguardi si posano su questi ragazzi?».

Da dove si riparte, Colasurdo?
«Dalla comunità. Dobbiamo ricostruire il sentimento della nostra comunità. Essere tutti presenza per gli altri. Questa, poi, è l'essenza della nostra civiltà, della nostra identità. I cortili della tradizione, li chiamo io. Penso che dobbiamo tornare a guardare a quelle radici, a quelle origini».

La città intanto sembra stordita. Funerali istituzionali e lutto cittadino. Ma basta tutto questo? Non c'è il rischio di dimenticare?
«Oggi la Pomigliano civile dà la sua risposta. Cortei, fiaccolate sono importanti per dire chi siamo e da che parte stiamo. Questo fratello africano va accompagnato con onore nei suoi paradisi, quelli in cui credeva e che lo accoglieranno come merita. Noi dobbiamo scortarlo, rendergli dignità. Ma poi ci dobbiamo mettere al lavoro. Storditi, va bene. Ma ci dobbiamo interrogare. Quello che è successo a Pomigliano non è diverso da quello che abbiamo sentito anche da altre parti. C'è una questione giovanile. C'è una questione educativa. Riguarda tutti ma riguarda pure noi. Si riparte dal cortile, dalle radici, dall'educazione. Da noi stessi».
 

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