Festival di Sanremo,
il corpo di Diletta l’unica cosa vera

Festival di Sanremo, il corpo di Diletta l’unica cosa vera
di ​Nicola Fano
Giovedì 9 Febbraio 2017, 09:00
3 Minuti di Lettura

L’avanspettacolo, in Italia, ha svolto un compito molto delicato, negli anni Trenta: alla rarefazione della realtà imposta dal regime fascista, oppose la corporeità delle cosce delle ballerine. I treni non arrivavano in orario ma la verità quotidiana degli italiani promanava sotto ai tutù delle ragazze in scena. Non è sessismo, si badi: è quel che successe. Il corpo contro la finzione: fu la fronda della concretezza. Quella che l’altra sera a Sanremo non è venuta fuori. Quella che solo l’esuberante esibizione di Diletta Leotta ha fatto intravedere. 

Diciamolo subito: l’edizione Raiset del Festival non ha alcun contatto con la realtà. Perché il dualismo Conti/De Filippi ha portato alle conseguenze estreme la religione di Sant’Ascolto (il protettore della tv popolare) e ha depositato nelle case degli italiani un prodotto patinato quanto incredibile. E autoreferenziale in modo inappellabile. Nessuno dei partecipanti al Festival è parso cogliere o esprimere un solo frammento di realtà. Salvo, forse, lo spacco gaio dell’abito rosso di Diletta Leotta, appunto. Il fatto che questo tuffo nella tangibilità sia avvenuto mentre dalla bocca della giornalista tv (che per altro ha portato a esempio una caso personalissimo: il comportamento piratesco di quanti le hanno rubato e rese pubbliche alcune foto scattate per divertimento privato) promanava un attacco al cyberbullismo è un elemento confortante per la solidità del paese reale. Ma non per il Festival Conti/De Filippi.
 

 

E così lo sposalizio commerciale definitivo tra Rai e Mediaset in occasione della cosiddetta kermesse canora ci consegna una tv ormai priva di qualunque contatto con quel che ogni giorno capita sotto ai nostri occhi e nelle nostre vite: un copione perenne dove qualunque battuta, qualunque scherzo, qualunque ospitata e qualunque incidente è parso vergato dalle sapienti mani di autori che hanno inventato tutto, dai finti inciampi alle finte emozioni. Va così, oramai, ma non si era ancora arrivati al trionfo della finzione, al dominio nel modello della tv pura. Ossia pura falsità. E lì a Sanremo, questo è il guaio, tutti si prestano.

È vero, già da anni il Festival aveva cominciato a scendere la china del distacco dalla realtà delle cose. Ricordate Pippo Baudo quando «salvò in diretta» un disoccupato che voleva buttarsi dal loggione dell’Ariston? Era il 1995. Oppure la replica, tre anni fa, quando Fabio Fazio venne interrotto da due lavoratori che per protesta si erano arrampicati sulle scenografie sontuose del festival? Una fucina di polemiche irreali e strumentali. Polemiche di genere (l’esibizione di Conchita Wurst); polemiche politiche (quando Benigni se la prese troppo con Berlusconi e dozzine di altre…); polemiche sulle giurie popolari (sempre); polemiche sul via libera al turpiloquio (gli sketch di Luciana Littizzetto). Addirittura ci fu chi propose di spostare il Festival per non sovrapporlo alle elezioni politiche del febbraio 2013! Ma stavolta è capitato qualcosa di più: l’astronave è partita per la tangente in modo definitivo in nome di un politically correct totalizzante. E il dualismo pubblico/privato ha ostruito il tubo catodico. Pura autoreferenzialità. Tutto e il contrario di tutto, in un mondo parallelo: il mondo del Festival Conti/De Filippi. E allora ben venga lo spacco audace di Diletta Leotta, unica testimonianza di realtà in un mondo artefatto. Per un momento ci ha fatto ricordare che il mondo, là fuori, è un’altra cosa. Dove, guarda un po’, esiste anche la violenza di genere. Quella vera, alle volte.

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