Lo ricorderemo sempre per la fierezza con cui ha combattuto, per tre anni, il male che l’aveva colpito. E per l’atroce ruolo che gli era toccato rappresentare, quello più drammatico, purtroppo da Galata morente, dell’uomo che vanamente si ribella al destino fino all’ultimo istante, ma è costretto a soccombere. Perché alla fine Sinisa Mihajlovic ci ha lasciati, a Roma, nella clinica Paideia in cui ha trascorso gli ultimi giorni.
Morto Sinisa Mihajlovic, il ricordo del vicedirettore del Messaggero Alvaro Moretti
Mihajlovic, la lezione del Guerriero
Se ne va giovane, a 53 anni, per colpa di una leucemia mieloide acuta che l’aveva aggredito all’inizio del 2019, l’uomo che non si era mai piegato né spezzato, di fronte a nessuno. Era il suo bello, la sua unicità, il suo orgoglio. Ha ceduto solo a una malattia assassina e inesorabile, ribellandosi con furia, cadendo e rialzandosi dopo due pesanti cicli di cure, chissà se presago della fine, ma indomabile sempre, circondato dalla sua meravigliosa famiglia: la moglie Arianna, i 5 figli (e un altro avuto da una relazione in età giovanile), da poco anche una nipotina. Ma non c’è stato niente da fare, contro la bestia che gli aveva avvelenato il sangue. Un paio di settimane fa lo si era visto per l’ultima volta, affaticato ma ancora lucido e divertente, alla presentazione del libro di Zdenek Zeman, a Roma.
UN COMBATTENTE DA RECORD
Quando la malattia si era manifestata, Sinisa l’aveva annunciato a modo suo, ma umanamente impaurito da ciò che lo attendeva. Era di marzo, nel 2019: «Ricevere la notizia è stata una bella botta, mi sono chiuso due giorni in camera a piangere e a riflettere. Mi è passata tutta la vita davanti... Ora che farò? Rispetto la malattia, ma la guarderò negli occhi, la affronterò a petto in fuori e so che vincerò questa sfida. Vado subito in ospedale, prima comincio le cure e prima finisco. La leucemia è in fase acuta, ma attaccabile: ci vuole tempo, ma si guarisce. Non voglio far pena a nessuno, ma spero che tutti capiscano due cose: nessuno è indistruttibile e la prevenzione è importante. Nella mia vita ho sempre dovuto combattere, nessuno mi ha regalato nulla e sono sicuro che da questa esperienza ne uscirò come un uomo migliore». Si cura, e mentre si cura continua ad allenare la squadra, anche in videoconferenza dall’ospedale, poi torna, la riprende in mano, finirà la stagione 2019-2020 con la salvezza, sempre mostrandosi, senza paura, senza vergogna, anche col volto segnato. È stato un esempio, e Bologna l’ha eletto cittadino onorario.
La sua battaglia contro il male e la sua fierezza nell’affrontarla, lo hanno fatto amare e apprezzare molto più di prima, perché non era più il nemico antipatico da affrontare in campo, era un uomo che soffriva e pativa come tanti altri.
Squadre che hanno lasciato segni: la Stella Rossa di Belgrado, addirittura campione d’Europa per la prima e unica volta nella sua storia nel 1991 con un Mihajlovic appena 22enne, la Lazio di Eriksson che fu la più vincente di sempre nella storia del club, persino l’Inter dove chiuse giocando poco (e ne era assai stizzito), insieme al suo amico Mancini diventato allenatore, che in quei due anni ricominciò a vincere. Molto della sua tempra scaturiva dalle vicende vissute in patria. Nella sua Vukovar, dove i serbi come lui erano in minoranza rispetto ai croati, si scatenò l’inferno quando scoppiò la guerra civile in Jugoslavia, e Sinisa vide parenti in armi l’uno contro l’altro, improvvisamente, anche nella sua famiglia, e la sua città distrutta. Anni terribili che l’hanno segnato: «Io sono uno che ha fatto due guerre, cosa volete che siano per me le polemiche del calcio?». La sua vita cambia quando arriva alla Roma, e in un negozio del centro conosce Arianna, sua moglie. Poi la Samp, quattro anni a Genova in cui da terzino sinistro diventa difensore centrale, l’incontro fatale con Eriksson e Mancini, il sodalizio che continua nei sei anni alla Lazio prima della chiusura all’Inter. Poi la carriera di allenatore, il Bologna e il Catania, poi la Fiorentina, un anno alla guida della Serbia (dove caccia Ljajic, che non voleva cantare l’inno), la Samp, la grande occasione al Milan (solo un anno, e rapporti mai facili con Berlusconi), il Toro, fino agli ultimi tre anni al Bologna.
A MARZO LA RICADUTA
Quando la leucemia si è ripresentata, Sinisa l’ha annunciato di nuovo a testa alta, lo scorso marzo. Ma il secondo ciclo di cure al Sant’Orsola di Bologna, non ha ottenuto gli effetti sperati, e negli ultimi mesi si era fatto tutto troppo duro. L’esonero doloroso del Bologna, lo scorso settembre, da molti criticato, in realtà parve un atto dovuto, più pietoso che crudele. Sinisa se ne va di 16 dicembre come un altro laziale, Felice Pulici. Un giorno, parlando di un suo giocatore che pativa il peso della fascia di capitano del Torino, osservò: «È fatica alzarsi alle 4.30 e andare al lavoro alle 6, farlo tutto il giorno e non arrivare a fine mese. Questa è fatica vera. Essere capitano del Toro è solo un orgoglio e un piacere». Sinisa era questo qui, e un milione di altre cose ancora. Indimenticabili.