Il monito dell’abate di Montevergine: «Spettacolarizzare non significa includere»

L'abate Guariglia con il presidente De Luca
L'abate Guariglia con il presidente De Luca
di Riccardo Cannavale
Venerdì 2 Febbraio 2024, 00:05
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Abate Guariglia, quale significato assume, quest’anno, la Candelora a Montevergine?

«La Candelora è innanzitutto la festa della Luce che ci è stata donata, la Luce che si manifesta ai popoli. Ma se guardiamo il ciclo dell’anno liturgico tutte le feste del Signore illuminano le nostre vite. E il 2 febbraio è il giorno in cui la Luce viene manifestata ai popoli».

A vedere ciò che accade nel mondo, però, il dubbio che la luce possa essersi spenta inevitabilmente viene, no?

«La luce si spegne quando non viene alimentata. Ciascuno di noi può e deve alimentarla professando quella che è la vera fede, credendo nel Vangelo di Cristo che non è altro che pace e amore».

Pace e amore sono i presupposti dell’accoglienza che è da sempre considerato il tema portante della Candelora a Montevergine. Qui, nei secoli, l’incontro, l’Ipapanté, ha assunto contorni che vanno al di là del significato biblico.

«Quando parliamo di festa dell’incontro bisogna stare attenti. Sgombriamo il campo da qualsiasi equivoco: l’accoglienza viene praticata ogni giorno dai cristiani. Lo stesso Ipapanté narrato da Luca nel suo Vangelo non è tanto incontro tra persone quanto l’incontro tra l’Antico Testamento, rappresentato dalla figura del vecchio Simeone e dalla profetessa Anna, ed il Nuovo Testamento, incarnato da Gesù Cristo. L’incontro è un concetto insito nella dottrina della Chiesa».

A Montevergine la Candelora è anche momento affermazione dei diritti civili. In questo caso, Ipapanté è anche il sacro che abbraccia il profano?

«So che forse risulterò indigesto a qualcuno ma credo che si stia degenerando. Tante manifestazioni e tutte per accentuare il tema della diversità non credo sia utile all’inclusione ma solo a fare spettacolo. Si accendono i riflettori per un giorno e poi finisce là. Mi chiedo: cui prodest? E questo non mi sta bene. E sa perché?».

Perché?

«Perché a Montevergine l’inclusione, l’accoglienza dell’altro avviene tutti i giorni, tutto l’anno, non soltanto il 2 febbraio. Ma voi sapete quante coppie omosessuali salgono discretamente, partecipando all’eucaristia, vivendo la loro devozione in privato, attraversando le navate del santuario tenendosi per mano? Si confondono tra le migliaia di pellegrini, vengono a parlare, a confrontarsi, talvolta a confidare i disagi che vivono personalmente, ma senza ostentare. Ecco: questa è la vera integrazione».

La juta dei femminielli, il 2 febbraio, è però da sempre una manifestazione colorata, vivace, allegra. Non è anche quella una forma di integrazione?

«Si, quello dei cosiddetti femminielli è un aspetto folkloristico che ha una sua valenza sotto il profilo storico, culturale ed anche sociale, ci mancherebbe. Ma io sono dell’idea che bisogna mantenere distinto il folklore, che è la vera tradizione della Candelora, dall’esagerazione, che conduce solo all’esasperazione».

Intanto, tenere alta l’attenzione significa anche fare passi in avanti, non crede?

«Io non so attraverso queste manifestazioni quali e quanti passi in avanti siano stati fatti. So, però, che di passi in avanti ed anche notevoli, in termini di riconoscimento dell’uguaglianza come persone davanti a Dio, ne ha fatti tanti la Chiesa che, in questo momento è sicuramente più avanti e aperta rispetto a tanti altri contesti sociali».

In che senso?

«Nessuno si è soffermato sul documento “Fiducia supplicans” del Dicastero per la Dottrina della Fede, che abbatte ogni distinzione. Un documento che si rivolge non solo alle persone omosessuali ma anche a chi si trova nell’impossibilità di accedere ai sacramenti, come le persone divorziate. Sono tante e fanno parte della Chiesa intesa come stare insieme da cristiani. E papa Francesco ha raccomandato, a chi ci chiede una benedizione, di essere come madre e padre, e di concedere conforto spirituale a quanti si rivolgono a noi».