Pietro Treccagnoli
L'Arcinapoletano
di

Per le antiche scale di Napoli

Foto di Sergio Siano
Foto di Sergio Siano
di Pietro Treccagnoli
Martedì 19 Gennaio 2016, 11:59 - Ultimo agg. 17 Febbraio, 09:57
5 Minuti di Lettura
Calata, gradini, gradoni, gradonate, scale, scalini, scalinata, pennata, pendino, pallonetto, discesa, rampe, salita. Siete stanchi, affannati? Siete a Napoli, dovreste essere abituati. Città di Lungomare, di vicoli, ma anche di colline, discese ardite e risalite. Teniamo più colli di Roma che si deve accontentare di averne solo sette. I pignoli a Napoli ne contano undici. Qui, basta mettere le spalle al mare e si contempla un saliscendi ben rappresentato dalla Tavola Strozzi che immortalò la capitale del Sud nello splendore aragonese. I gradini intitolati a Massimo Troisi a Chiaia sono solo un piccolo frammento della città obliqua, analizzata in tutte le potenzialità da urbanisti, sociologi, architetti e persino cantautori (in particolare gli studi di Michele Cennamo in collaborazione con Edoardo Bennato). Città obliqua e trasversale, ma soprattutto appesa, sospesa e che, adeguatamente sfruttata, potrebbe fornire straordinarie soluzioni alla mobilità cittadina. Percorsi fotografati e schedati in più testi (tra gli ultimi «Napoli in salita e discesa» di Gabriella Guida, con le foto di Sergio Siano, edito da Intra Moenia). Perché Napoli s’è mossa per secoli a piedi, montando dalla Marina a Caponapoli, passando per il Pendino (che non a caso ha questo nome), dal Porto a Monte di Dio, da Toledo al Vomero attraverso i Quartieri Spagnoli, o impennandosi su verso Posillipo, o Capodimonte, attraverso la Sanità fin sotto il Moiariello, o Capodichino o in fondo in fondo ai Camaldoli dell’Eremo. È una pelle rugosa quella della metropoli che ha percorso i millenni insieme alla sirena Partenope.

Se attraversate Napoli a piedi, rimanete impressionati di quante zone sono popolarmente chiamate Monti (’O Monte), quasi si fosse a ridosso delle Alpi. E qui che abitano le diverse tribù del popolo della scale, abituate a vedere la metropoli in un’altra prospettiva, esclusiva e silenziosa, appartata, appena raggiunti dall’eco del caos urbano, liberate dalle auto e dagli scooter. Talvolta si godono la luce, più spesso le ombre, ma si sono sottratti all’unica dimensione prepotentemente imposta dai tempi moderni. Le strade oblique restano in gran parte un’occasione persa per la città, perché solo a voler scendere dal Vomero, seguendo gli antichi percorsi a gradini, un tempo letti interrati di torrenti alluvionali, si ha l’imbarazzo della scelta. Chi questi sentieri nella foresta di palazzi li conosce e li pratica ha persino trovato un’alternativa alle pur comode ed indispensabili funicolari. Sono funicolari attivate con le proprie gambe, rigeneranti soprattutto in discesa, disponibili per fisici atletici in salita. Molte, lungo i secoli, sono state trasformate in semplici strade per far passare prima le carrozze e poi le auto. E per qualcuna è stata ripristinata la natura a balzi, come ai Gradoni di Chiaia, quotidianamente immortalati dai turisti.

Le scale, fatte per lo più di lucidi e resistenti bàsoli, attraversano il cuore antico di Napoli, il suo ventre, ma soprattutto caratterizzano le espansioni fuori le antiche mura prima greche e poi vicereali, laddove l’orografia diventava mossa, dove scalava, consentiva di allargare l’occhio sulle meraviglie del golfo e faceva sentire i primi forti odori della campagna, restituendo a Napoli l’altra sua natura, terragna. Qui si coltivavano broccoli e friarielli che facevano da contrappunto alimentare ad alici, polpi e saraghi. Forse, proprio il Casale di Posillipo, Santo Strato, dove si accedeva per l’agreste e un tempo cimiteriale via del Fosso, trattiene ancora insieme mare e terra, oltre a una natura popolare incuneata nel ghetto della borghesia affluente. Per gradini si accede pure all’ultimo passo verso la Gaiola e verso la finestra di Marechiaro.

Ma le scale più numerose sono quelle che collegano il centro con il Vomero. Sono antichissime e, prima che la collina diventasse nuovo quartiere urbano, vedevano passare viandanti affannati, ma gaudenti, diretti a San Martino, a Sant’Elmo o ai casolari sparsi. La più celebre di tutte è la Pedamentina che s’imbocca, in discesa, proprio all’ombra della Certosa e trascina, una svolta dopo l’altra, un panorama dopo l’altro, un portoncino lezioso dopo l’altro, ma anche un mucchio di monnezza (per lo più densa di cocci di vetro) dopo l’altro, fino al corso Vittorio Emanuele, per poi proseguire, senza più scalini attraverso Trinità delle Monache e Santa Lucia a Monte fino al rumore ininterrotto della Pignasecca. Percorso amato dagli scrittori e da Domenico Rea in particolare. Tanti narratori si sono appassionati alle scale napoletane, ne hanno tratto ispirazione: il Pendino Santa Barbara di Curzio Malaparte, il Pallonetto di Santa Lucia di Giuseppe Marotta, le Scale a San Potito di Luigi Incoronato. Ciascuno, a suo modo, alla ricerca degli uomini e degli amori del popolo obliquo, a volte deforme, altre marginalizzato, altre ancora sfrattato.

Il Vomero può vantare, comunque, alcune tra le più suggestive strade a scale, come il Petraio che risale il fianco della collina proponendo a volte scorci mozzafiato con vista su Capri o infrattandosi tra strette palazzine. Si arriva ai gradini Cacciottoli, oltre piazza Leonardo, sottomettendosi a due cavalcavia di Sant’Antonio ai Monti che parte alle spalle di Montesanto (gran spreco di monti nella toponomastica, perché poco più in là c’è ancora Montecalvario, già Quartieri). Via Sant'Antonio ai Monti è stata via molto praticata da universitari e impiegati fino agli anni Ottanta, soprattutto da su a giù Napoli. Fiancheggia il parco Viviani (parzialmente degradato) e si allarga in uno spiazzo scenografico e presepiale che, a suo tempo, fu set per «I guappi» di Pasquale Squitieri.

Tocca andarsela a cerca con pazienza, curiosità e scarpe buone questa Napoli segreta, discosta dai percorsi ufficiali, come quella che s’inerpica verso Capodimonte da piazza Cavour, attraverso la Sanità; come la salita del Crocifisso, cara ai Borbone diretti alla Reggia prima che Murat innalzasse il ponte che ha devastato il chiostro di Santa Maria della Salute; come il Paradisiello, dietro l’Orto Botanico, porzione della città nobile e contadina; come salita Miradois che mena all’Osservatorio Astronomico o come quella del Moiariello sul quale svetta la torre toscaneggiante del Palasciano. L’elenco è interminabile, attraversa Chiaia e il centro antico dove, più giù si va più i cardines scompaiono e i percorsi si aggrovigliano in dedali medievali, spesso ciechi e inconcludenti che sfociano in un cortile o offrono alla devozione un altarino, sotto un portico, in un fondaco o di fronte a un basso con l’eterna nonnina intenta a scrutare dietro la coltre dello stendino, passanti noti e ignoti. Sono location speciali per l’oleografia, per il pittoresco, per l’occhio meravigliato del reporter d’oltreoceano. Non sempre restituiscono il senso di pace che ci si aspetta, perché il sangue marcio della camorra scorre in queste vene, appiccicate a uno sbalzato scheletro urbano, dove non si vede il sole e il mare. Non tutte le scale portano in paradiso, ammesso che abbiate sufficienti riserve di ossigeno, molte trascinano all’inferno. E se vi va bene al Purgatorio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA