Passato Halloween con tutto il suo corredo folkloristico, delle streghe resta solo la citazione della fatidica notte a loro dedicata, neanche a giusta ragione. Ma l'amplissima letteratura «witch» continua a viaggiare tutto l'anno nelle storie, nelle leggende, negli incubi dei poeti. E delle poetesse, anche. Stavolta è A.K. Blakemore, apprezzata giovane autrice inglese, a cimentarsi nel suo primo romanzo pubblicato da Fazi (pagine 334, euro 18,50). Premiato come miglior esordio narrativo nel Regno Unito e finalista a due premi europei, Le streghe di Manningtree è un libro potente, espressivo, coinvolgente. Con pagine di grande suggestione che fanno rivivere l'«ordinario splendore» di un gruppo di donne oscure e perseguitate. Ma è anche un documento straordinario sul nostro presente, perché recuperando documenti originali, atti delle udienze, confessioni e processi, Blakemore smonta il castello dei meccanismi sociali di un potere che emargina e rende muti, che controlla e annienta le donne che vedono e parlano troppo, e sono dunque una minaccia per l'ordine sociale e l'autorità maschile.
Siamo a Manningtree, cittadina della contea dell'Essex, nell'anno di grazia 1643.
Sono piccoli, quasi impercettibili slittamenti progressivi, prima i rituali di divinazione, poi storie di infanticidio sussurrate a mezza voce, poi i battibecchi della madre scambiati per maleficio su un bambino che dice di avere gli incubi. Infine è soprattutto l'arrivo in città di Matthew Hopkins, il nuovo locandiere, figura storica, laurea a Cambridge e mentalità europea, a far precipitare gli eventi. Private degli uomini dall'inizio della guerra, senza nessuno che le controlli, che ci fanno madre e figlia tutte sole in una casa sulla collina? Una preda ideale. Giacché «quando le donne pensano da sole, pensano il male, così si dice».
Si dice, e tanto basta. Miseria e pregiudizio vanno insieme, ben lo sa Rebecca che ha visto abbastanza sofferenza da sapere che «una mente malata è incline a inventarsi ogni genere di spettro». Lo sa pure la sua sfrontata madre Beldam (bella e dannata già nel nome), che «strega è l'offesa che affibbiano a chiunque fa succedere le cose, a chiunque porti avanti la storia».
L'intenso racconto di grande qualità letteraria scandaglia l'animo di indagati e inquisitori, perché c'è un punto in cui tutto si confonde, in cui fascinazione e paura vanno insieme ed esasperano sia il ruolo di giustiziere sia quello della vittima. Un meccanismo infernale, questo davvero sì, in cui Blakemore mescola vicende reali e verosimili, con estratti dai processi che videro la condanna per stregoneria di circa duecento persone tra il 1644 e il 1646. Come scrive lei stessa in postfazione, «gli atti dei processi dell'Essex offrono una introspezione inestimabile - e commovente, credo delle paure, delle speranze, dei desideri e delle insicurezze delle donne che si guadagnavano da vivere ai margini della società e che altrimenti avrebbero vissuto senza avere una voce». Questo romanzo rende giustizia, almeno in parte, «al temperamento, all'umorismo, all'orgoglio che traspirano dai verbali delle loro vite e delle loro morti». A distanza di quattro secoli, esse sono ancora tra noi.