Premio Serao 2023 a Melania Mazzucco: «Matilde sapeva stare nel suo tempo»

La scrittrice riceverà il 5 ottobre il riconoscimento del Mattino al Palazzo Reale

Melania Mazzucco
Melania Mazzucco
di Titti Marrone
Domenica 24 Settembre 2023, 23:45 - Ultimo agg. 5 Ottobre, 23:30
5 Minuti di Lettura

C’è qualcosa di estremo nel modo in cui Melania Mazzucco vive la scrittura. La costruisce entrando ogni volta nei personaggi come in un’ossessione: uno per tutti, Tintoretto, cui ha dedicato un saggio, un romanzo e un film. Da Il bacio della Medusa (Rizzoli 1996) a Vita (Einaudi, premio Strega 2003) a La lunga attesa dell’angelo (Einaudi 2008) a L’architettrice (Einaudi 2019), ciascuno dei suoi romanzi racconta una storia riempita di storie. Sono ricavate da viaggi, archivi, biblioteche, pinacoteche, studi, memorie familiari, suggestioni visive alimentate da un’opera d’arte o dal suo personalissimo immaginario. Ed è forse proprio questa cifra estrema, febbrile, il tratto che più di altri avvicina la scrittura letteraria della scrittrice romana, che il 5 ottobre riceverà nel Palazzo Reale di Napoli, nell’ambito del Campania libri festival», il premio Matilde Serao 2023, a quella soprattutto giornalistica della fondatrice de «Il Mattino», che il premio organizza nel nome della sua cofondatrice.

«Ciò che più mi ha colpito di Matilde è la capacità di stare nel proprio tempo», dice Mazzucco. «Questo è evidente fin dal racconto del 1886 contenuto in Il romanzo di una fanciulla e dedicato al lavoro delle telegrafiste.

Anche in seguito saprà raccontare il mondo senza arroccarsi unicamente nel proprio mondo. Nel mio caso, io ci sono arrivata indirettamente venendo dal cinema».

Nella sua formazione confluiscono appunto gli studi di cinema, quelli letterari, la passione per l’arte figurativa. E ad accomunare lei a Serao, direi, è anche una gran versatilità espressiva: entrambe avete avuto esperienze composite. 

Video

Le sue come sono approdate alla scrittura letteraria?
«Attraverso una strada alquanto strana e tortuosa. Da ragazzina il mio interesse originario era la fotografia. Così, con i primi soldi messi da parte feci due acquisti simbolo: una bicicletta e una macchina fotografica. Pensavo che la fotografia fosse il mio modo di guardare il mondo. Poi ho scoperto un interesse per l’arte, campo in cui non avevo una formazione di studi. Ed è stato così che quella è diventata una dimensione mia, il che mi ha dato la libertà di raccontare in modo diverso. In Lei così amata mi sono dedicata alla fotografa Annemarie Schwarzenbach ed ho scoperto l’amore per il Tintoretto, fino a sentirmi libera di guardare a quell’artista senza maschere o pregiudizi e di raccontarlo. Nei miei anni al Centro sperimentale di cinematografia, poi, c’era la possibilità di accedere alla cineteca, e così sono stata affascinata da molti film del muto e degli anni ’50, da tecniche narrative a base di dissolvenze, montaggi. Però, quando scrivo, non penso mai a priori a una struttura d’impianto architettonico: direi che ogni romanzo è qualcosa che nasce su sé stesso, come un organismo vivente».

In un romanzo come «Vita» c’è però anche molta ricerca: per questa storia d’immigrazione in Usa del secolo scorso ha consultato gli archivi di Ellis Island, le liste dei passeggeri, gli archivi di polizia di Brooklyn. Che equilibrio c’è tra immaginazione e realtà?
«Lì il punto di equilibrio oscilla: sono partita dai racconti fatti da mio padre per spiegarmi la differenza tra la mia vita comoda e quella di mio nonno, partito per gli Usa ai primi del ‘900. Poi è venuta un’esperienza con i miei compagni di cinematografia: alle prime urgenze migratorie in Italia andammo nelle favelas romane piene di migranti “non accompagnati”, tra i quali c’era un ragazzo marocchino che mi ha fatto pensare a mio nonno. Ho cominciato le mie ricerche di archivio, ma la realtà contraddiceva il racconto di mio padre, che nel frattempo non c’era più: la versione raccontata dal nonno non coincideva con ciò che dicevano i documenti. Ma era quella su cui si era costruita la leggenda di famiglia. Ho scoperto che la nostra origine era da Tufo di Minturno, mentre mio padre indicava un’origine piemontese e quindi un nostro imprimatur di tipo valdese... Tutti i parenti hanno rifiutato la mia versione ed io ho capito così che anche le leggende familiari hanno importanza. Vita è quindi il mio libro più libero perché ho accettato di creare un equilibrio tra versioni differenti».

«L’architettrice» ha una scrittura assai visiva che evoca una Roma papalina seicentesca tra fasti, intrighi, miserie e commerci. Spesso ha detto che i quadri le parlano, e se quel romanzo fosse stato ambientato a Napoli, avrei giurato che a parlarle fossero state le ombre abbaglianti di Caravaggio e De Ribera. Quale visione l’ha ispirata?
«Sicuramente la pittura d’inizio ‘600, i caravaggeschi e i bamboccianti. Il padre di Plautilla, il Briccio, scrisse una commedia straordinaria ambientata in un’osteria, i suoi testi mi hanno guidato molto a vedere quei suoi mondi. Ed è la stessa persona che scrive una commedia in napoletano, avendo una moglie di Napoli. Ho così percepito la Roma di allora, sordida, furbesca. Feroce. Colorata di sfumature presenti anche nella Napoli dell’epoca, con cardinali e puttane nello stesso palazzo. E sono suggestioni non lontane da quelle sollecitate dalla lettura degli atti del processo di Artemisia Gentileschi, dove si parla di sesso con intonazioni sorprendentemente esplicite. Ecco che cosa ho voluto raccontare: una città, un tempo, in cui c’erano le monache Murate vive e, nel conservatorio di Sant’Eufemia, quasi tutte le suore erano figlie di preti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA