Pmi, al Sud è rischio default: persi 320mila posti di lavoro

Pmi, al Sud è rischio default: persi 320mila posti di lavoro
di Nando Santonastaso
Sabato 29 Maggio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 18:49
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La resilienza alla pandemia c’è stata e l’aumento del clima di fiducia registrato l’altro giorno dall’Istat tra gli imprenditori lo conferma. Ma sulla ripresa a breve e medio termine delle Pmi, l’ossatura del sistema produttivo del Paese, pesano ancora incognite e rischi, ancorché mitigati in parte dall’accelerazione del piano vaccinale. I dati e le analisi del Rapporto regionale Pmi 2021 di Confindustria e Cerved, presentato ieri in webinar (con gli interventi tra gli altri del sottosegretario Enzo Amendola, dell’economista Gianfranco Viesti, di Raffaele Brancati, presidente del Met, Monitoraggio, economia, territorio, e di Fabrizio Guelpa di Intesa Sanpaolo), lascia pochi dubbi. Dall’esame delle performance economico-finanziarie delle circa 160mila società di capitale (da 10 a 249 addetti, secondo i criteri europei) emerge la conferma che la pandemia ha colpito duro in tutta Italia in alcuni settori (dal turismo alla ristorazione) ma che sarà il Sud a ripartire più lentamente, pagando ancora una volta un prezzo molto alto alla sua fragilità economica. 

In base alle stime, i posti di lavoro che potrebbero essere persi soprattutto nei servizi alla fine del 2021 rispetto a dicembre 2019, ammontano a 1,3 milioni, (300mila in più rispetto alle previsioni Istat), pari all’8,2% del totale dei 16 milioni di addetti impiegati nel totale imprese prima dell’emergenza. A livello territoriale, se le perdite di occupazione più consistenti riguarderebbero il Nord-Ovest (399mila addetti secondo il Rapporto), colpisce la pressoché identica quota tra Nord est (322 mila, -8,2%) e Mezzogiorno (320 mila, -8,4%) con il Centro più staccato (289 mila, -8,9%), nonostante l’enorme differenza nella consistenza numerica territoriale delle Pmi. Il tasso di disoccupazione, che passerebbe dal 10% al 15,1%, registrerebbe punte del 21,1% nel Sud e nelle Isole con Calabria (24,5%), Campania (24,4%) e Sicilia (23,9%) in testa alla classifica delle regioni per i tassi più alti (come già accadeva peraltro prima della pandemia). 

Ne consegue, inevitabilmente, che al Sud c’è la crescita maggiore della rischiosità delle imprese, salita al 20,8% rispetto al 13% del pre-Covid.

Parliamo, per intenderci della quota di Pmi che in base al Cerved Group Score con un’alta probabilità di default a dodici mesi: la media italiana è prevista in aumento dal 9,2% al 14,7%. Ma se ci si limita ai settori maggiormente colpiti dal Covid, il rischio di fallimenti della Pmi meridionali di settore è senza rivali: 36,5% rispetto alla media nazionale del 28% ma con punte di oltre il 60% per società di enti e meeting, fiere e convegni e di oltre il 40% per alberghi e ristoranti.

Dall’analisi degli andamenti regionali, dove il Rapporto (coordinato e illustrato ieri da Giuseppe Mele e Guido Romano) è particolarmente efficace, viene fuori un Centro sempre più vicino ai livelli più bassi del Mezzogiorno, con Toscana e Lazio in grosse difficoltà. Ma si confermano anche le maggiori debolezze nelle regioni meridionali che pure, grazie a una specializzazione produttiva più concentrata su settori come l’agroalimentare, meno interessati dalle misure di lockdown e di contenimento del virus, hanno resistito meglio all’inizio della pandemia. In realtà, come spiega il Rapporto, «a causa di una struttura produttiva più fragile, le conseguenze nel medio termine potrebbero essere più significative proprio nel Mezzogiorno». Perché è qui che «le Pmi hanno perso di più in termini di redditività lorda». Una mazzata del 56% nel 2020, niente di paragonabile al pur pesante -37% del Nord est.

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La domanda allora è: riuscirà il Pnrr a riequilibrare quest’ulteriore divario? Il Rapporto riconosce ai governi di questi ultimi due anni uno sforzo massiccio per sostenere l’emergenza ma i dubbi non mancano anche per via dello scarso coinvolgimento assicurato finora alle Pmi nella definizione delle strategie post pandemia. Dice Carlo Robiglio, presidente della Piccola industria e vicepresidente di Confindustria, che ha aperto i lavori: «Le piccole e medie imprese attualmente si trovino in una situazione di forte esposizione debitoria e di limitata capacità di investimento. In questo quadro alcune proposte diventano particolarmente incisive: la proroga automatica della moratoria di legge per le Pmi; la conferma dell’intervento rafforzato del Fondo di Garanzia e della ‘Garanzia Italia’ di SACE. E ancora, l’allungamento dei tempi di restituzione del rimborso dei debiti di emergenza del 2020 dai 6 anni, attualmente previsti, fino a 15 anni; e infine l’utilizzo della leva fiscale per favorire la crescita dimensionale con interventi come la proroga del “credito d’imposta per la quotazione delle Pmi e lo sviluppo della finanza alternativa».

’è insomma quella che il Rapporto definisce una «limitata visione imprenditoriale» del Pnrr (e tornano le perplessità sui fondi destinati con il React Eu alla “decontribuzione Sud”). Ma c’è anche l’esigenza, sottolineata nelle conclusioni da Vito Grassi, presidente del Consiglio delle rappresentanze regionali di Confindustria e vicepresidente dell’Associazione, di evitare che i tanti fondi disponibili finiscano per sovrapporsi e creare confusione: «È l’esigenza – spiega - di una forte integrazione del Pnrr con la programmazione dei Fondi strutturali europei e del Fondo Sviluppo e Coesione 2021-2027. Proprio il 2021 è, infatti, l’anno di avvio del nuovo ciclo di programmazione dei Fondi strutturali europei: per l’Italia si tratta di circa 83 miliardi di euro, che si sommano a quelle ancora da spendere della programmazione 2014-2020. La sfida sarà dunque quella di essere in grado di utilizzare queste risorse in maniera coordinata e complementare a quelle stanziate per il Pnrr, mantenendo allo stesso tempo la loro complessiva addizionalità nel rispetto degli obiettivi localizzativi della spesa ordinaria per investimenti». 

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