Rapporto Pmi 2022, fragili sette aziende su 10 tra crisi e svolta green

Rapporto Pmi 2022, fragili sette aziende su 10 tra crisi e svolta green
di Nando Santonastaso
Venerdì 16 Settembre 2022, 11:00 - Ultimo agg. 17 Settembre, 08:30
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Non solo le conseguenze della guerra e il caro-energia. Altri rischi si manifestano sulle prospettive delle Piccole e medie imprese italiane e soprattutto di quelle del Mezzogiorno. Il Rapporto Pmi 2022, curato da Confindustria e Cerved (in collaborazione con UniCredit e Gruppo 24 Ore), presentato ieri pomeriggio a viale dell'Astronomia, aggiunge all'elenco quelli legati ai cambiamenti climatici e ambientali (i danni generati cioè da eventi metereologici estremi e da fenomeni di degrado ambientale), e soprattutto il «rischio di transizione». Ovvero i costi del processo di adeguamento verso un sistema economico a zero emissioni nette, «in ottemperanza alla strategia di transizione verso la neutralità climatica perseguita dalle istituzioni europee». La conclusione è che «le Pmi che operano in settori a rischio di transizione alto o molto alto sono poco più di 16 mila (il 10,6% del totale, circa 160mila), impiegano 478 mila addetti (l'11,0%) e presentano un'esposizione verso il sistema creditizio di oltre 44 miliardi (il 17,1%)». E che, come detto, è il Mezzogiorno «l'area geografica più esposta al rischio di transizione», con circa 127 mila addetti coinvolti (14,7% del totale), seguita dal Centro (10,9%) e dal Nord Est (10,1%). Se poi, come fa il Rapporto, si entra nello specifico dei bilanci, si scopre che quasi due terzi delle circa 16 mila imprese a rischio transizione (10.588) «non possiedono una struttura finanziaria adeguata ad affrontare eventuali investimenti di riconversione in condizioni di equilibrio finanziario. Le Pmi che avrebbero invece spazi per maggiori investimenti sono 5.679, con un potenziale di investimento quantificabile in 7,8 miliardi di euro».

Considerando il totale delle Piccole e medie imprese italiane, il Rapporto illustrato da Giuseppe Mele di Confindustria ed Antonio Angelino di Cerved - dimostra che quasi il 70% presenta almeno un rischio (ambientale, di transizione, di natura finanziaria) a riprova della perdurante fragilità del sistema, confermata in modo particolarmente incisivo da un dato fornito dall'economista Nicola Rossi dell'Istituto Bruno Leoni.

E cioè che da oltre 20 anni i tassi di natalità delle pmi italiane sono negativi, a dispetto di piccole variazioni anno su anno che sembrano dimostrare il contrario. 

Di fronte a questi dati i dubbi su ciò che potrà accadere a breve e medio termine crescono a dismisura. Una frenata nel biennio 2022-23, dopo la buona ripresa del 2021, potrebbe essere inevitabile per il sistema Pmi. E la resilienza, opportunamente ricordata dal presidente di Cerved, Aurelio Regina, rischia di non bastare più. «In una fase come quella attuale spiega il Rapporto -, caratterizzata da una forte incertezza sugli scenari economici futuri e nella quale sono ancora evidenti gli effetti di due anni di crisi profondissima, i limiti strutturali delle nostre Pmi appaiono quanto mai evidenti e rischiosi di fronte alle nuove criticità generate dai recenti eventi bellici e dalla crisi degli approvvigionamenti di materie prime, in particolare energetiche. Criticità strutturali e congiunturali definiscono un quadro in cui è necessario agire con interventi diversificati, ma parimenti efficaci e soprattutto dedicati al sostegno della competitività delle imprese, vero motore per la ripresa del Paese».

Già, ma cosa occorre fare? Vito Grassi, vicepresidente di Confindustria e presidente del Consiglio delle Regioni, che chiude l'incontro di ieri parla di misure urgenti quanto necessarie. E ne cita almeno quattro: il rinnovo della moratoria di legge per le Pmi; un intervento strutturato per la patrimonializzazione e il rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese, su cui risultano ancora deboli le misure fiscali finora previste (ACE, credito DTA e aggregazioni); l'utilizzo di strumenti come la leva fiscale o il rafforzamento degli schemi di garanzia a supporto delle emissioni obbligazionarie e di altri strumenti di debito per favorire la crescita dimensionale delle imprese; e la proroga del «credito d'imposta per la quotazione delle pmi». 

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Per la verità le prime risposte stanno già arrivando. Il numero due di UniCredit Italia, Remo Taricani, ricorda ad esempio che il Gruppo ha appena varato un piano di sostegno a imprese (un milione le pmi clienti della banca) e famiglie del valore complessivo di 8 miliardi che prevede tra l'altro la moratoria dei mutui già in essere fino a 12 mesi per fronteggiare almeno in parte le spese del caro-energia. Ma il percorso resta comunque in salita, ricco di incognite, con il rischio (tanto per cambiare) di recessione dietro l'angolo e scenari in forte movimento, come sottolinea Giovanni Baroni, presidente del Comitato Piccola Industria di Confindustria. «La pandemia ha sicuramente indebolito il sistema delle Pmi italiane dice Baroni ma paghiamo anche decenni di scelte sbagliate, di misure contraddittorie e soprattutto del mancato ascolto delle imprese». E questo è anche il tasto più battuto negli interventi di ieri: la sensazione degli imprenditori è che trovandosi l'Italia in un'economia di guerra a tutti gli effetti occorrano misure adeguate. Non è un caso che tra i titoli emersi ieri siano tornati in primo piano anche quelli relativi alle tante risorse disponibili per il Mezzogiorno tra fondi nazionali ed europei, ordinarti e straordinari, in attesa di essere spesi. E anche i dubbi sulla capacità delle pmi di interagire con il Pnrr: «Serve più informazione» dice non a caso Mele. Che ricorda come sia complicato anche vedere attuate le misure già varate dal governo: come quella che dovrebbe garantire il credito d'imposta alle pmi per l'efficienza energetica. Il decreto-legge relativo è stato approvato l1 marzo scorso, ma senza il necessario decreto ministeriale è come se fosse inutile. Musica alle orecchie di chi sull'energia specula che è un piacere 

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