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Edoardo Leo: «Ingrassare? Che bello, ho preso 22 chili. La vera rivoluzione si fa con la gentilezza»

Parla il popolare regista e attore romano: «Sapersi comportare bene cambia la vita»

Edoardo Leo: «Ingrassare? Che bello, ho preso 22 chili. La vera rivoluzione si fa con la gentilezza »
Edoardo Leo: «Ingrassare? Che bello, ho preso 22 chili. La vera rivoluzione si fa con la gentilezza​»
di Andrea Scarpa
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 17 Settembre 2023, 00:53 - Ultimo agg. : 07:26
6 Minuti di Lettura

Edoardo Leo viene al Messaggero, dove - naturalmente - è di casa e subito dice che per un anno, forse un anno e mezzo, non lavorerà per cinema e tv, ma solo per il teatro. Ultimamente, dargli dello stakanovista è poco: ha appena finito di girare la serie Il clandestino per Rai1, pochi giorni fa era a Venezia perché nel cast del film di Liliana Cavani L’ordine del tempo, dal 14 agosto è nelle sale con I peggiori giorni - da lui scritto, diretto e interpretato con Massimiliano Bruno - e una settimana prima era a Locarno, in Svizzera, per presentare il suo nuovo lavoro da regista-attore, Non sono quello che sono, trasposizione in romanesco dell’Otello scespiriano ambientato ai giorni nostri fra i malavitosi di Ostia. Insomma, di tutto. Senza risparmiarsi. Per calarsi nei panni del perfido Jago è anche ingrassato di 22 chili.

APPROFONDIMENTI
«Ecco il mio Otello»
Foto

Vuole liberarsi dell’etichetta di bello e simpatico?

«Tutti quelli che hanno successo inevitabilmente se ne ritrovano una addosso. È successo a me, è successo a Favino, Germano e tanti altri. La mia è quella del protagonista di film che, pur non essendo un caratterista, riesce a empatizzare con il grande pubblico in una maniera che ancora mi sorprende». 

Perché una scelta così estrema, alla Robert De Niro in “Toro scatenato”, per il suo Jago?

«Volevo liberarmi dell’immagine del bel ragazzo con le spalle larghe che fa le foto glamour con lo smoking. Volevo disintegrarla».

Per strada le chiedono i selfie per quali film?

«Smetto quando voglio, Noi e la Giulia, Perfetti sconosciuti e via dicendo. Mi va benissimo, sia chiaro, ma a un certo punto non potevo più fingere con me stesso di non avere anche altre esigenze. Non voglio restare confinato nel recinto dorato delle commedie, che - sia chiaro - continuo ad amare. Capisco che per qualcuno vedermi in certi ruoli può risultare scioccante, ma per fare questo lavoro bisogna esporsi e rischiare. Woody Allen dice che il pubblico vuole vedere sempre le stesse cose, ogni tanto per migliorare bisogna avere il coraggio di deluderlo».

La voglia di piacere a tutti non ce l’ha più?

«Prima ce l’avevo. Le critiche mi colpivano tantissimo, ma bisogna farsene una ragione e capire che bisogna liberarsi dal cattivo gusto di voler andare d’accordo con tutti. Parole di Nietzsche, queste, che sottoscrivo».

Che partita sta giocando con l’Otello di Shakespeare?

«Una sfida enorme, che ho in mente da quindici anni. Volevo che fosse il mio esordio da regista, ma per fortuna nessuno me l’ha fatto fare: sarebbe stato troppo. Adesso, invece, ho capito che dovevo chiudere il cerchio altrimenti non l’avrei mai realizzato. Saranno i 50 anni, ma voglio cercare un nutrimento artistico diverso dal solito. E poi la trasformazione fa parte del mio mestiere. È bello diventare un altro. Psicologicamente è stato faticoso e doloroso, ma rivedendomi non mi sono riconosciuto, quindi è andata bene».

Tradurre in romanesco un testo classico, con un femminicidio, è un modo di fare politica?

«Certo. Io però in qualche modo ho sempre fatto così: anche nelle commedie più divertenti ho affrontato temi come lavoro, crisi economica, fallimento personale. Nel 2023 finora siamo arrivati a 79 donne ammazzate, quindi viviamo un’emergenza. La mia scelta è stata quella di raccontare la realtà di oggi con una storia di 400 anni fa perché in fondo nulla è cambiato».

 

Un po’ è cambiato lei: quanti tempo ci ha messo a ingrassare?

«Tre mesi e qualcosa. Prendere 22 chili è stato bellissimo. Ho mangiato pasta a pranzo e cena tutti i giorni. Per perderli se n’è andato un anno. Un inferno».

Quando arriverà nelle sale?

«Nei prossimi mesi. Nel frattempo girerò per i teatri di tutta Italia con il mio spettacolo Ti racconto una storia e ogni mattina andrò nelle scuole a presentare il film ai ragazzi: inizio a ottobre e andrò avanti per almeno sessanta date. Inviterò anche la gente sul palco a parlare di sé». 

Politicamente, adesso, come la pensa?

«Chiedo scusa ma non parlo di queste cose, voglio farlo solo con il mio lavoro. Sono stufo delle quattro righe a effetto sui social, in cui non credo, e dei fraintendimenti di ogni tipo. Se voglio dire qualcosa mi organizzo con un film, un testo, uno spettacolo. Un film come Non sono quello che sono è il mio modo di affrontare i rapporti violenti uomo-donna».

E che idea si è fatto?

«Siamo talmente intrisi di maschilismo e patriarcato, tutti, anche quelli che pensano di non esserlo, che c’è da fare ovunque un gran lavoro».

E in lei quanto ce n’è?

«Io sono cresciuto fra donne forti, che contavano. Sono stato fortunato, mai visto sgarbi o sopraffazioni. Però se si pensa che ai box del Moto Gp ci sono sei-sette ragazze mezze nude con l’ombrellino intorno a un pilota, o che a ogni round di un match di boxe sfila sul ring una ragazza in mutande con un cartellone in mano, la strada è ancora lunga. Per non parlare di differenza salariale e ruoli ai vertici delle aziende».

Che ne pensa del politically correct?

«Bisogna rispettare certi paletti e al tempo stesso trovare un modo per uscirne con gusto. C’è chi lo sa fare e chi no».

Rileggere tutto in chiave politicamente corretta, dai film alle favole, è giusto o no?

«Nell’Otello Jago piu volte lo chiama negro. E ovviamente così l’ho lasciato nel mio film. Quando sono stato a Locarno mi hanno detto che nei sottotitoli non avrebbero tradotto quella parola. “Edulcorate Shakespeare?”, ho replicato. Abbiamo discusso, ma non c’è stato niente da fare: hanno tradotto negro con una “N” e quattro asterischi. Ho capito, però, che stavo facendo una battaglia soprattutto formale. Quella parola è stata ascoltata, capita, e qualcuno si è sentito rispettato. Va bene così. Fra cent’anni quell’omissione darà il senso del periodo che stiamo vivendo».

Che ne pensa della polemica innescata a Venezia da Piefrancesco Favino sui personaggi italiani, tipo Enzo Ferrari, interpretati da attori stranieri come Adam Driver? Non è la negazione del vostro lavoro questa presa di posizione?

«Chiedo scusa, ma preferisco non parlare di questa vicenda».

Con altri colleghi è impegnato con il sindacato Unita per avere condizioni eque per i lavoratori dello spettacolo: arriverete allo sciopero come in America?

«Non possiamo farlo, non abbiamo un contratto di categoria. Siamo l’unico Paese europeo a non averlo». 

A 51 anni ha raccolto il giusto?

«Mi sento alla pari. Lavoro da trent’anni, mi va bene da dieci. I primi venti sono stati duri: faticavo a pagare l’affitto. Diciamo che nel 2024 posso festeggiarne trenta di gavetta».

Il punto più alto e quello più basso?

«Il mio primo film da regista, 18 anni, realizzato con il mio più caro amico Marco Bonini. Il più basso forse Anno mille, in cui anch’io ero un cane».

Lei ha due figli di 17 e 13 anni: le cose più importanti da trasmettere quali sono state?

«Cinque parole: buongiorno, buonasera, grazie, prego, scusa. Saper usare le parole cambia i comportamenti e permette l’uso e la comprensione delle sfumature sentimentali. Possono salvare e migliorare la vita. E poi bisogna saper essere gentili. La gentilezza, diceva Brecht, è la vera rivoluzione».

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