Fabrizio Curcio capo dipartimento della Protezione civile: «Il 90% dei Comuni a rischio, ci salva solo la prevenzione»

«Tutto il nostro Paese è multirischio, è fragile, e dobbiamo lavorare molto in prevenzione»

Fabrizio Curcio è capo dipartimento della Protezione civile
Fabrizio Curcio è capo dipartimento della Protezione civile
di Mariagiovanna Capone
Venerdì 2 Dicembre 2022, 07:00 - Ultimo agg. 3 Dicembre, 09:31
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Giornata napoletana per il capo dipartimento della Protezione civile Fabrizio Curcio. In mattinata la partecipazione alla presentazione di «Return - multi-Risk sciEnce for resilienT commUnities undeR a changiNg climate», un Partenariato Esteso realizzato con i fondi Pnrr che l'Università Federico II coordinerà mettendo insieme i 26 soggetti (atenei, enti di ricerca, aziende e Dipartimento della Protezione civile). Nel pomeriggio la riunione del Centro coordinamento soccorsi per la frana di Ischia.

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In questi giorni si è detto di tutto su quanto accaduto a Casamicciola e la magistratura farà chiarezza con le sue indagini. Lei come descriverebbe quanto accaduto?
«Un fenomeno improvviso su un territorio fragile.

E purtroppo l'ennesima tragedia vissuta da una comunità già colpita dal sisma del 2017. Vorrei chiarire che quanto accaduto conferma che tutto il nostro Paese è multirischio, è fragile, e dobbiamo lavorare molto in prevenzione. Non c'è solo Casamicciola: il 90% dei comuni italiani sono interessati da erosione costiera, frane o alluvioni. È un tema nazionale, abbiamo almeno 625mila frane censite, un terzo delle quali sono a cinetismo rapido cioè che si muovono a elevata velocità, sono improvvise proprio come è avvenuto a Ischia. È evidente che bisogna impegnarci sulla prevenzione strutturale, finalizzare le risorse per la messa in sicurezza in particolare di alcune situazioni critiche, e poi lavorare molto sulla consapevolezza dei cittadini, sulla percezione che ciascuno di noi è a rischio. Ma non solo nella fase emergenziale, anche nell'approccio al territorio. Manca la cultura di prevenzione del rischio, la consapevolezza dei cittadini è un tema centrale».

Si è parlato molto anche del fatto che le case nell'area ad elevato rischio fossero condonate.
«Questo è un tema più volte affrontato dal Dipartimento e il nostro contributo deve partire da un'analisi tecnica. È evidente che un'area abusiva ha dei rischi potenziali non certificati. Ma purtroppo è anche vero che abbiamo aree abbondantemente condonate che sono soggette a questi stessi rischi. Allora, dal punto di vista tecnico il condono è una parte amministrativa, e allora dico facciamo un'analisi sulla parte tecnica: quali sono le aree a rischio e quali sono i provvedimenti che possiamo prendere? A parte che i condoni non se ne devono fare più. Quelli già fatti non ci consentono di dire che un'abitazione in quella zona è sicura solo perché ha avuto un condono. Ma dirò di più: in passato, al netto del condono, era possibile costruire in aree che solo molto tempo dopo sono state delimitate a rischio. Si è costruito perché era consentito. Quindi uscirei dalla discussione condono o non condono, e sposterei il dibattito su un altro tema: sicurezza o non sicurezza. Se una persona è in un'area non sicura e non è neanche autorizzato, è evidente che non può continuare a vivere lì e bisogna trovare soluzioni specifiche e puntuali. Se invece sono aree sicure il ragionamento sul condono è diverso».

In passato in Campania si sono stati aiuti economici per chi viveva in zona rossa a rischio vulcanico, nel caso si fossero spostati in aree più sicure. È ipotizzabile un aiuto similare per i cittadini ischitani?
«È certamente fattibile se però torniamo al concetto base: la consapevolezza del cittadino. Si fa un percorso di comunicazione del rischio, si spiega la situazione reale al quale noi e le nostre famiglie siamo soggetti. Ma bisogna fare un'azione puntuale e precisa. Ed è un processo certamente non semplice. Infatti lo vediamo anche in altri tipi di emergenza che la voglia del rientro nella propria abitazione è prioritaria. È quindi anche un tema psicologico, affettivo, di dove ci si sente davvero a casa Bisogna mettere in piedi dei percorsi che siano anche di razionalizzazione e comunicazione. Però credo che ai cittadini, se gli si spiegano i fatti con un po' di pazienza, insistenza e con qualche azione attuabile, si arriva a quell'obiettivo. Non certo dall'oggi al domani, però. Occorre tempo».

È immaginabile invogliare alla delocalizzazione in tutte le aree in frana e a rischio alluvione?
«Come le dicevo prima le frane note sono 625mila in Italia. Abbiamo circa 6 milioni e 800 mila persone a rischio alluvione, e un milione e 300 mila a rischio frane. Per questo dico torniamo nell'aspetto tecnico perché se immaginiamo la delocalizzazione per milioni di persone, stiamo dicendo una cosa difficile da portare avanti. Mentre è fattibile un focus sulle situazioni più delicate a conoscenza del territorio». 

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