«Giorni da incubo. Ho lasciato la bombola di ossigeno solo per andare in bagno. La mia saturazione è scesa a 82. Settimane in apnea, con la paura di morire. Non lo auguro a nessuno». La voce è ancora rotta dall'emozione, anche se ogni tanto irrompe una risata di sollievo. Pina (preferisce che non si pubblichi il cognome), 48 anni, non vaccinata, positiva al Covid dal 14 ottobre al 3 novembre, vuole raccontare il suo incontro ravvicinato con il virus. «Ho imparato molte cose in questa esperienza, e vorrei che chi ancora sottovaluta questo terribile mostro, la smettesse. Devono sapere la verità sia sulla gravità della malattia sia su come è strutturata l'assistenza del nostro sistema sanitario».
Il Covid irrompe nella vita di Pina in modo banale, come quasi sempre.
Il racconto di Pina, oltre a sottolineare l'importanza del vaccino e la drammatica imprevedibilità di un virus che colpisce duro e a tradimento anche i più giovani e le persone in salute, si compone di due annotazioni sull'assistenza a casa, una negativa e una positiva. «Quella negativa - racconta la donna - è relativa alla Medicina di base. Il medico di famiglia è quasi totalmente assente. Non sono mai stata visitata a domicilio. Ho fatto fatica anche a ricevere la ricetta per la bombola di ossigeno e i farmaci. Si resta in attesa che il dottore apra lo studio, si decida a rispondere al telefono, a leggere i messaggi o le mail, per ricevere la ricetta dopo giorni. Così proprio non va, un paziente non può non essere visitato dal suo medico di famiglia. C'è qualcosa che, a prescindere dalla responsabilità dei singoli, non funziona nel sistema. Ma c'è anche del buono, e sono i medici dell'Usca, nello specifico del Distretto 39 dell'Asl Napoli 2 nord. Sono stati degli angeli, hanno sempre risposto al telefono, mi hanno accompagnata anche moralmente, sono venuti addirittura 4 volte a casa, mi hanno visitata, mi hanno cambiato la terapia. Mi hanno consentito di affrontare una degenza durissima a casa, senza ricovero, portandomi, con cortisone e molti farmaci, alla guarigione restando nel mio letto, con grande professionalità e abnegazione». Ora che l'incubo è finito, restano la paura per il pericolo vissuto, la gioia della rinascita e il ritorno al lavoro, il sollievo di risentire la vita, l'indignazione per tutto quello che proprio non ha funzionato, il desiderio di dire a tutti di non sottovalutare né la violenza del virus né la forza del vaccino, la gratitudine infine per chi ha dato una mano: per gli undici medici dell'Usca sono partite altrettante bottiglie di vino con una lettera di ringraziamento, lo stesso per i dieci dipendenti di una farmacia di zona che sono stati solerti e disponibili. Per tutti loro, una parola sola: grazie. Anzi due: grazie e prosit.