Sanseverino, un anno contro il Covid: «Io, medico e paziente più testardo del virus»

Sanseverino, un anno contro il Covid: «Io, medico e paziente più testardo del virus»
di Maria Pirro
Lunedì 8 Marzo 2021, 10:09
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È un lottatore testardo. Immortale come Muhammed Ali. Solo che non indossa i guantoni, ma la mascherina e il camice o un tutore e il pigiama. Da un anno Carmine Sanseverino combatte contro il Covid senza mollare mai. Lo fa dentro e fuori dal ring, ovvero in ospedale e a casa. Da medico e da paziente. Il professionista 65enne è in prima linea al «Moscati» di Avellino, ma è anche uno dei colpiti dal virus, probabilmente contagiato in ospedale. In una delle forme più aggressive, tant'è che il dottore ha trascorso più di 50 giorni in rianimazione. «Il 13 aprile 2020, ho chiesto di essere intubato: all'anestesista Francesco Golia ho fatto promettere che ci saremmo rivisti. Una richiesta stupida per un medico, cosciente che non si possono fare queste previsioni, non per un paziente, che ha bisogno di conforto», si commuove. «Al risveglio non riuscivo nemmeno a parlare».

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Sanseverino è stato curato con il plasma donato dai suoi colleghi, guariti senza così gravi complicanze. Ed è stato l'ultimo paziente nella prima ondata dimesso dall'ex palazzina Alpi.

Il suo trasferimento, avvenuto in barella, è stato accompagnato dagli applausi. In estate, fino al 10 agosto, la degenza a Villa dei Pini, centro convenzionato per la riabilitazione. «Il ritorno alla normalità è stato il momento più duro», avverte. «All'inizio mangiavo tramite un sondino naso gastrico, avevo perso 25 chili e non avevo forza nella presa: non riuscivo a scrivere un messaggio di due righe al cellulare. E non potevo camminare: ho impiegato 20 giorni per rimettermi in piedi con l'ausilio degli appoggi, altri 15 per fare i primi passi». In autunno e in inverno il 65enne ha avuto anche altre complicanze.

«Solo due settimane fa, ho ripreso a correre. Con il fisioterapista. Resta un po' di affanno, e in bici ho difficoltà, ma più a salire in sella che a pedalare. Dopo una lezione di scuola guida, vado però in macchina». Il 2 febbraio, il ritorno in corsia: di nuovo in camice bianco, anche se non ha ancora finito le terapie di recupero e, per tre mesi, non lavora più in medicina d'urgenza e pronto soccorso. «Alcuni colleghi mi hanno fermato per un selfie, ma i messaggi più forti, di incoraggiamento, li ho ricevuti proprio da ex pazienti che aveva visitato in emergenza. «Ho scelto di fare questo lavoro oltre 45 anni fa per l'umanità. E non mi fermo». A casa suo figlio segue le sue orme, sua figlia studia Biotecnologie. E di sua moglie Carmela, conosciuta da ragazza sul corso di Avellino («Il Facebook del 1984» sorride), ricorda il profumo del menu appena preparato per il compleanno: spaghetti con le vongole, cozze e insalata di polpo.

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