Napoli, parla il pentito: «Ecco perché ho deciso di tradire il boss Marco Di Lauro»

Napoli, parla il pentito: «Ecco perché ho deciso di tradire il boss Marco Di Lauro»
di Leandro Del Gaudio
Venerdì 10 Gennaio 2020, 23:00 - Ultimo agg. 11 Gennaio, 13:48
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Pochi secondi all’interno dell’ascensore della Questura. Tanto è bastato a chiudere la più importante (e duratura) caccia all’uomo condotta negli ultimi due decenni a Napoli. Lì, nel vano che conduce dalle celle di sicurezza ai piani alti di via Medina, c’è stato l’approccio decisivo per la cattura di Marco Di Lauro, la soffiata che ha fatto scattare le manette ai polsi dell’ormai ex imprendibile, il wanted numero uno che trascorreva la sua latitanza borghese in un condominio dell’area collinare napoletana. Lo ha svelato in questi mesi il neo pentito Salvatore Tamburrino, nel corso del primo verbale di interrogatorio reso dinanzi ai pm del pool anticamorra, dopo aver superato la fase di tentennamento, dopo aver formalizzato il proprio status di collaboratore di giustizia. 

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È in questa fase, che svela come - in modo estemporaneo - si arriva alla cattura di F4 (quarto figlio di Paolo Di Lauro), latitante dal 2004 al 2019: una soffiata che nasce in un momento di sconvolgimento emotivo, dopo aver ucciso a sangue freddo la moglie Norina Matuozzo, nella casa dei genitori in cui si era trasferita per chiudere i ponti con la sua storia matrimoniale. La morte di una giovane madre, l’odio che si trasforma in pianto da parte del marito assassino, lo sconforto che produce la svolta decisiva per arrestare Marco Di Lauro. E gli inquirenti che incassano il risultato, dopo anni di sacrifici e silenziosa abnegazione. 

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Sabato due marzo, giorno di ordinaria follia. Ha spiegato Salvatore Tamburrino: «Avevo ucciso mia moglie, mi resi subito conto di aver commesso una cosa ignobile, mi affidai al mio avvocato per consegnarmi alle forze dell’ordine. Fui prelevato dalla polizia di corso Secondigliano, consegnai la mia pistola, fui portato in Questura». Cosa accadde in quei frangenti? «Nell’ascensore, ad alcuni poliziotti, confidai loro il luogo dove si trovava Marco Di Lauro. Volevo, grazie a questa informazione, ottenere la disponibilità di poter riabbracciare un’ultima volta i miei figli. È stato quindi un moto immediato e spontaneo». 

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Tutto in poche ore, secondo la ricostruzione messa a verbale, nel corso delle indagini condotte dai pm Maurizio De Marco e Vincenza Marra, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. Siamo in via papa Giovanni XXIII a Melito, al quinto piano di un edificio di edilizia popolare. È qui che si consuma la tragedia di Norina Matuozzo. Ha 33 anni e tanta voglia di vivere, di dedicarsi alla crescita dei figli, ma è decisa a chiudere i conti con Salvatore Tamburrino, l’uomo che da almeno 15 anni svolge il ruolo di angelo custode del boss latitante Marco Di Lauro. È lui il link tra il covo del ricercato e il resto del mondo, un camorrista dal profilo basso, ma che non accetta di perdere la moglie.
 

 

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Poche parole in casa dei suoceri, poi - di fronte alla determinazione della donna che chiede una vita diversa - la mano sul grilletto e quel tum tum che non lascia scampo. Sangue freddo, un femminicidio che c’entra poco o nulla con la camorra. Poche ore dopo, arrivano le manette e il primo approccio.


Salvatore Tamburrino e la moglie Norina Matuozzo

Lì, in ascensore, quelle parole, quell’indirizzo sussurrato ad un agente: «Via Emilio Scaglione», tanto è bastato per stanare F4, per chiudere i conti con un soggetto ricercato per una condanna a dieci anni per fatti di droga e tuttora sotto processo per l’omicidio del giovane impiegato (estraneo alla camorra) Attilio Romanò.

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Difeso dai penalisti Sergio Cola e Gennaro Pecoraro, oggi Di Lauro jr punta a ribaltare la sentenza all’ergastolo per l’omicidio, ma anche a dimostrare il proprio ruolo defilato negli affari di famiglia. Ma sono ancora le confessioni di Tamburrino a svelare in che modo venivano gestiti i contatti tra Marco Di Lauro e il suo retroterra criminale. Venivano usati dei «telefoni di plastica come dei citofoni», distrutti subito dopo l’uso. Ad un orario concordato, una volta ogni venti giorni (salvo situazioni di particolare emergenza), la breve comunicazione, che consentiva di definire accordi e strategie, senza impegnare - sotto il profilo logistico o militare - le retrovie del clan.
 

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Ma che vita ha condotto Marco Di Lauro? Si è mosso poco dall’appartamento di via Scaglione. Ha vissuto assieme alla moglie e a qualche gatto. In casa aveva manubri e tappetini per una sorta di palestra domestica, passava il suo tempo alla tv o in attività di basso profilo. Poche sortite notturne, qualche volta al cinema, sempre e comunque senza dare nell’occhio con auto o abiti di lusso. Una latitanza «borghese», lontana dal cliché dei protagonisti di Gomorra, che è stata interrotta dalla tragedia della gelosia, da parte di un uomo che uccide la moglie, si pente un attimo dopo, chiede di riabbracciare i figli e offre sul piatto della giustizia un nome che conta: quello di Marco Di Lauro, protetto per 14 anni di vita da gregario e angelo custode.
 

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