Saviano torna a Napoli: «Baby boss uccidono perché in città non c'è futuro»

Saviano torna a Napoli: «Baby boss uccidono perché in città non c'è futuro»
di Leandro Del Gaudio
Sabato 12 Novembre 2016, 08:27 - Ultimo agg. 13:29
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Napoli anticipa il mondo e, a dirla tutta, anche l'elezione del presidente Usa Donald Trump è figlia di un atteggiamento che qui da noi abbiamo imparato a conoscere presto: quello del tutto e subito, dei soldi prima di tutto, dell'imparare a fottere per non essere fottuti. È l'atteggiamento che anima le giovani vite (spesso interrotte in modo violento e precoce) della Paranza dei bambini (Feltrinelli) l'ultimo romanzo di Roberto Saviano. Loro - i «bambini» armati di Napoli - sono i protagonisti della cronaca cittadina, scandita da omicidi e stese criminali (sventagliate di proiettili senza un obiettivo preciso), ma anche - per riflesso naturale - dell'ultima opera letteraria dell'autore di Gomorra. Un testo che fa da spunto per un'analisi a tutto campo su Napoli, metropoli europea da sempre «fucina di racconti universali».

Saviano, chi sono i bambini che lei racconta nel suo ultimo romanzo?
«Hanno dai 10 ai 18 anni, hanno o sognano di avere le chiavi della città. E sono pronti a tutto per arrivare a questo obiettivo».

Un testo ispirato dalle indagini della Dda di Napoli?
«Sì, ma non solo. C'è anche l'esperienza raccolta in questi anni nelle principali città del mondo, penso alle aree metropolitane di Buenos Aires, di New York o Città del Messico. Credo addirittura che Napoli è più in avanti, se valutiamo cosa sta accadendo sotto il profilo dei fenomeni criminali».

Sì, ma chi sono i «bambini» della paranza?
«Sono adolescenti privi di ogni progetto futuro. Da questo punto di vista sono social, nel senso pieno del termine: vivono qui ed ora, come se non avessero la categoria del tempo, privi una cronologia di lunga durata. Per loro conta solo la ricchezza immediata, hanno come modelli i rich kids americani, magari Fabrizio Corona, Flavio Briatore o, perché no, lo stesso Trump. Sono disposti a uccidere per ottenere ciò che vogliono: da questo punto di vista, assomigliano anche ai terroristi dell'Isis, che (senza pretendere di offrire loro giustificazioni) uccidono e sono violenti in mancanza di un progetto di vita alternativo».

Come nascono?
«Dalla totale assenza di progettualità. Sanno che per loro non c'è un progetto di vita realizzabile. Vede, un tempo un ragazzino decideva di non fare il criminale per fare il barista o il cameriere, convinto che prima o poi avrebbe raggiunto un tenore di vita accettabile, magari prendere in fitto una casa, creare una famiglia, andare a mare d'estate. Oggi non è più così. E loro lo sanno».

Muovendosi tra finzione letteraria e cronaca giudiziaria, come è stato possibile che alcuni adolescenti abbiano avuto la forza di conquistare Napoli?
«Perché anche nella camorra sono saltati certi schemi. Se un tempo qualcuno poteva pensare di farsi una carriera, aspirando al ruolo di boss in un arco di venti anni, oggi non è più così. È tutto disgregato, quindi hai una sola strada davanti a te: o fotti o vieni fottuto. Di qui le stese, il ricorso alla violenza, gli omicidi come possibilità di esistere e di reclamare il proprio spazio sul territorio».

Come è cambiata Napoli rispetto a undici anni fa, quando venne pubblicato «Gomorra»?
«La città ha fatto dei passi in avanti. Oggi l'area metropolitana napoletana non è più solo un groviglio di patti e alleanze politico-mafiose. Credo che il pressing dei grandi apparati criminali sul ciclo dei rifiuti o sul cemento sia stato interrotto o fortemente limitato, anche grazie allo slancio di tutto ciò che chiamiamo società civile».

Qual è il problema principale allora per Napoli?
«Non ci sono state svolte decisive sul piano culturale, mentre da un punto di vista imprenditoriale non c'è un solo progetto in grado di segnare un momento di rilancio, di attrazione di capitali, di svolta autentica. Torniamo sul punto di partenza: Emanuele Sibillo (uno dei boss della paranza ucciso un anno fa a 19 anni) in carcere a Nisida sognava di fare il giornalista; quando poi è tornato a Forcella si è imposto come boss rottamatore delle vecchie alleanze, perché non c'era un progetto per sé e per i ragazzi come lui. Quindi ha azionato l'acceleratore e ha creato la paranza. In senso generale, si avverte la mancanza di progetti da un punto di vista politico istituzionale».

Come giudica la stagione amministrativa di De Magistris?
«Il suo errore principale consiste nell'ostinarsi a comunicare una città in rinnovamento, lì dove il rinnovamento è più intenzionale che reale. Un errore sul piano culturale e della comunicazione».

Eppure ha fatto notizia l'ingresso di Apple a Napoli est.
«Ecco, la conferma di quanto le dicevo: a San Giovanni a Teduccio non c'è la Silicon valley, ma un corso aperto a poche centinaia di studenti. Una svolta concreta, al momento non è avvenuta, purtroppo».

Come giudica il boom turistico a Napoli negli ultimi anni?
«Dipende dal fatto che sono stati interrotti in pochi mesi i flussi turistici con il Medioriente e con l'Egitto. Molti scelgono Napoli come meta esotica, ne apprezzano lo splendore proprio a partire dalla sua complessità, dalle sue dinamiche contraddittorie che offrono musei e meraviglie paesaggistiche assieme al traffico, al caos o ad altre criticità. È anche in questo suo essere città complessa che Napoli è avanti rispetto al resto del mondo, sbaglia invece chi storce il viso di fronte a una analisi del genere».

Si riferisce ancora a De Magistris?
«Certo. Vede, il sindaco ha il merito di aver allontanato potentati criminali dalla città, di aver sgomberato il campo da zone d'ombra, ma siamo lontani da una trasformazione reale. E il suo atteggiamento teso a fare proclami o a nascondere le cose è folle, deleterio: la Napoli di Valenzi, di Rosi e di Eduardo non nascondeva i suoi problemi, le sue criticità. È un po' come Renzi che bolla come gufi tutti coloro che raccontano le cose per come sono veramente».

Come è cambiata l'attenzione governativa su Napoli?
«Credo sia un'attenzione intermittente. È come se fosse un fatto fisiologico che nel napoletano ci siano in media quaranta o cinquanta omicidi l'anno. Stesso discorso per la Calabria o per altri contesti del sud Italia. Anche per questo motivo, parlare di paranza dei bimbi e di dinamiche territoriali può essere utile a capire cosa sta accadendo in una città europea».

Si rivolge alla politica?
«Mi rivolgo a tutti i lettori interessati, in particolare alle donne, in quanto portatrici naturali di un progetto di vita. Siano madri o no, le donne sono naturalmente portatrici di vita e di una dimensione che va oltre il qui e ora, che è la prospettiva psicologica di scende in strada armato. È a loro che mi auguro arrivi il mio ragionamento».

Oggi lei è al teatro Sanità, come mai questa scelta di presentare il suo romanzo in un quartiere tanto complesso?
«Proprio per la sua complessità. Rione Sanità non vuol dire solo stese e faide tra famiglie e gruppuscoli criminali, ma anche artigianato e impegno, passione e volontariato. Penso all'esperienza del teatro Sanità, animata proprio dalla voglia di legarsi ad un progetto di vita, ma anche all'impegno di don Antonio Loffredo, parroco di Santa Maria alla Sanità, a cui Napoli deve moltissimo: qui don Antonio è lo Stato, in quanto resistenza e volontà di riscatto. Una proposta uguale e contraria alla vita delle paranze».
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