Teatro San Carlo di Napoli, i «Vespri siciliani» secondo Emma Dante: l’oppressore è la mafia

Successo per l’opera di Verdi, nelle prossime repliche in sala le foto delle vittime di camorra

Una scena dello spettacolo
Una scena dello spettacolo
di Stefano Valanzuolo
Domenica 21 Gennaio 2024, 23:30 - Ultimo agg. 23 Gennaio, 07:31
4 Minuti di Lettura

L’ultima volta, al San Carlo (2011), «Les vêpres sicilienne» furono presentati nella versione francese, quella originale. E anche lo spettacolo andato in scena ieri sera, con regia di Emma Dante, a Palermo aveva debuttato (coprodotto con Napoli, Bologna e Madrid) in edizione Parigi 1855. Stavolta, invece, si è optato per «I vespri siciliani» in italiano, seguendo una tradizione d’ascolto consolidata. A differenza di quanto avrebbe fatto col «Don Carlos», Verdi non si dannò l’anima per rimodulare questo lavoro e renderlo conforme ad altri parametri di gusto e prassi, limitandosi a eliminare vezzi e convenzioni imposti dal mercato francese, soprattutto i ballabili del terzo atto. Non è con «Traviata» e «Trovatore» che andrebbe confrontato il significato di quest’opera, ma con certa produzione francese cui l’autore guardò con attenzione costruttiva. E la versione Parigi, allora, avrebbe più senso.

Di quelle convenzioni da grand opéra tiene conto la regia di Emma Dante, pur declinandone gli esiti in chiave contemporanea: ampia varietà di riferimenti, dunque, e densità di situazioni, alla ricerca di una comunicazione diretta con lo spettatore che passi per l’occhio e per la pancia, senza intermediazione intellettuale spinta.

Come raccontato alla vigilia, l’oppressore cui si ribella il popolo siciliano qui è la mafia, percepita come interlocutore feroce, volgare e straniero nel senso di «estraneo», o «barbaro»; con pistole e bidoni d’acido.

In palcoscenico, l’idea portante viene resa con evidenza. Il tratto rituale e il gesto violento – la processione, il ratto delle spose, la mattanza finale – sono restituiti in una rappresentazione quasi plastica, iconica ben oltre la citazione neorealista.

Da qui il ricorso, consapevole pure nell’eccesso, a elementi che rimandino a una Sicilia da immaginario collettivo (i pupi, le teste di Caltagirone, gli «stigghiolari», Santa Rosalia, gli stendardi con i volti delle vittime di mafia), metateatrale nella sostanza e, per questo, non oleografica. Sotteso a questa lettura, però, c’è il rischio di esaurire nell’esposizione di riferimenti palesi e nella plausibile rappresentazione del conflitto sociale e politico la natura di un’opera che invece trae vigore pure dal confronto tra dimensione pubblica e privata. Lo studio dei caratteri rimane nei margini dello standard, mentre nella memoria si imprimono i labari con i volti delle vittime di mafia. Gli elementi scenici di Carmine Maringola accolgono l’azione in modo ideale, i costumi di Vanessa Sannino delimitano situazioni e storie, le luci di Cristian Zucaro scandiscono i passaggi emotivi. Mimi, danzatori e acrobati riempiono la scena con vivacità e buon gusto. 

Henrik Nánási, il direttore d’orchestra, consegna un’esecuzione pulita, senza essere brillante, della sinfonia iniziale. Ai cantanti fornisce un supporto comodo e accede, a tratti, a sonorità anche morbide, privilegiando la dimensione italiana dell’opera. La tendenza a smussare gli scarti dinamici rende la lettura musicale poco sbalzata, ma consente il costante controllo di un’orchestra che, infatti, sostiene le tre ore di cimento senza sbandamenti nè pause di tensione. 

Video

Maria Agresta esce acclamata e vincente dal confronto col delicatissimo ruolo di Elena: sfrutta doti tecniche importanti, concedendosi acuti luminosi, accenti sufficientemente scuri all’occorrenza e sfoggiando un’espressività convincente grazie al controllo ferreo dell’emissione. 

Il Procida di Alex Esposito brilla per cura del fraseggio, presenza scenica e timbro. Mattia Olivieri svecchia la figura di Guido di Monforte né vi sottrae nobiltà, esibendo omogeneità dei registri e buona estensione. Piero Pretti, alle prese con il ruolo temibile di Arrigo, trova squilli disinvolti e pregevoli sfumature vocali, al netto di casuali forzature. Puntuale Gabriele Sagona (Béthune), in un cast complessivamente affidabile. Vorremmo dire lo stesso bene del coro, preparato da Fabrizio Cassi, ma il suo peso in questo titolo è troppo centrale per non pretendere qualcosa di più rispetto ad applicazione e diligenza, comunque non sottovalutabili per efficacia nel finale terzo. Successo pieno e caloroso per tutti. Il 24 e il 31 ad aggiungere senso alla regia in sala ci saranno le foto di vittime di camorra. Ed in sala i loro parenti. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA