Ci si incontra per strada, ora che la vita lentamente riprende, e l’unica via per riconoscere l’altro è lo sguardo. Gli occhi, le sopracciglia, la fronte. Ma davvero ci rappresenta? Quanto parla di noi? Forse poco, eppure è ciò che rimane dei nostri connotati, camuffati dalle protezioni.
Emilio Porcaro, architetto nella vita e fotografo nel cuore, ha condotto una ricerca sulla verità degli sguardi, già da prima della pandemia: scattando solo quella porzione di viso che va dall’occhio ai capelli di una serie di persone, conosciute e non, di qualsiasi età ed estrazione sociale. E oggi che quel tratto è la sola via libera alla rivelazione di sé si è ritrovato, profeticamente, con un documento di sorprendente attualità.
La ricerca è finita in una mostra, in questi giorni alla Galleria Principe di Napoli: si chiama “Ciò che vedo e ciò che mi resta”. 50 scatti in cui brillano esclusivamente gli sguardi dei soggetti ritratti.
“Volevo raccontare quello che a volte ci sfugge, la necessità di osservare con attenzione chi ci è di fronte e fermare quella sensazione che è presente in quell’attimo”.
Nella semplicità di uno sguardo non abbiamo bisogno di altro, dice Porcaro. L’immagine fotografica viene riportata in un formato rettangolare con zoom sullo sguardo, lasciando a colori solo le iridi: “Per catturare maggiormente l’attenzione su di esse, il rapporto diviene diretto tra osservatore e ciò che viene mostrato”.
Non sapeva, quando era partito con la sua indagine, anni fa, quanto sarebbe stata indovinata in questo periodo: “La presentazione di questo progetto fotografico viene proposta in un momento in cui la comunicazione visiva, specialmente tramite gli occhi, dato l’uso delle mascherine protettive, diventa fondamentale.