“Perché le foto sulle tombe ci ritraggono sempre da grandi, sono tutte così recenti?” si chiede l’attrice beneventana Noemi Francesca un po’ dopo l’inizio dello spettacolo, da lei scritto, diretto e interpretato, “Il tempo di una festa. Appunti per una morte dolcissima”, fino a domenica 18 dicembre al ridotto del Mercadante. E perché, invece, non ci sono le fotografie dei morti da piccoli? Come potrebbe capitare con il ritratto di una bambina travestita da fiore, la nonna della protagonista, o almeno del suo personaggio, in un lavoro che tende a strizzare l’occhio al metateatro. Se nei cimiteri ci fossero immagini di bambini-fiori sarebbe diverso, riflette. Si potrebbe iniziare ad affrontare il tema della morte in un modo nuovo, come prova a fare lei entrando e uscendo dalla figura di Simone De Beauvoir - dal cui testo “Una morte dolcissima” il lavoro è tratto – che parla della fine della madre.
Fine è uno dei sinonimi che l’attrice usa in uno dei momenti più intensi. Tendiamo a non chiamare la morte col suo nome e crediamo di incantarla con perifrasi ed eufemismi: dal "tristo mietitore" al trapasso, quando si scompare si finisce “nei grandi pascoli” dei nativi d’America oppure, detto in modo diretto, si “schiatta”.
La storia incrocia il senso della fotografia, evocata dalla presenza in scena del fotografo Marco Pedicini e riassunta nella frase di Roland Barthes su come la morte prenda forma proprio nella fotografia (da “La camera chiara”, un saggio del 1980). E analizza la possibilità che il teatro ha di costruire un rito di pacificazione verso il più naturale dei passaggi: “Esiste oggi uno spazio collettivo di natura narrativa, simbolica, rituale, in grado di fornire possibili nessi di senso che rendano sopportabile l’idea della morte?” scrive l’attrice nelle note di regia. Una domanda che ha posto a varie persone le cui voci intervengono a puntellare lo spettacolo di rimandi reali. Un’interpretazione pregevole, vitale e precisa come un bisturi, conduce il pubblico al termine di uno spettacolo riuscitissimo, come è riuscito il rito, con la battuta di Kolja de “I fratelli Karamazov”: “È strano tutto questo Karamazov, tanto dolore e poi delle frittelle!”. E che frittelle siano, allora, con Francesca che si dà alla danza tra musiche e colori, illuminando il palco, del teatro e della vita, del tempo di una festa.