Carcere di Santa Maria Capua Vetere,
informazioni “in diretta” da tre talpe

Carcere di Santa Maria Capua Vetere, informazioni “in diretta” da tre talpe
di Mary Liguori
Sabato 10 Luglio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 18:48
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È il 15 aprile del 2020, sono passati sei giorni dai pestaggi al reparto Nilo, quando da almeno tre diversi ufficiali di polizia giudiziaria - al momento non identificati - Pasquale Colucci, capo della task force che commise le violenze, e il provveditore delle carceri campane, Antonio Fullone, apprendono dell’indagine in corso ed ottengono, via chat, atti in quel momento secretati. La fuga di notizie riservate sull’inchiesta, in quei giorni alla fase embrionale, avrebbe potuto inficiare il lavoro dei carabinieri che ha portato, due settimane fa, a 52 misure cautelari, tuttavia il risultato dei tentativi di depistaggio ha finito per allungare l’elenco dei capi d’imputazione a carico di chi, fino al 28 giugno scorso, era ai vertici della catena di comando campana del Dap e della penitenziaria. Ma torniamo alle fitte corrispondenze via chat del 15 aprile. Tre talpe, scrivono gli investigatori, avvisarono Colucci delle denunce dei detenuti, dei referti, e gli fornirono copie dei documenti. E, ancora, lo avvertirono dell’imminente arrivo dei carabinieri in carcere il giorno in cui, su delega della Procura di Santa Maria Capua Vetere, sarebbero poi stati acquisiti i cellulari degli indagati e i filmati della videosorveglianza interna al reparto Nilo, la prova regina nella mani della Procura. I verbali, dunque, dei primi detenuti che, con ancora addosso i segni delle manganellate, trovano il coraggio di denunciare i propri aguzzini, finiscono quasi subito nelle mani dei presunti «registi» del massacro del Nilo. Nel gruppo whatsapp in cui sono state trovate le foto degli atti secretati inviati da Colucci ci sono parte, oltre a Fullone, l’ispettore Michele Sanges e la dirigente aggiunta del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, Francesca Acerra. 

La donna ricopriva un ruolo di vertice nel Nic napoletano fino al 28 giugno scorso quando è stata raggiunta da una misura interdittiva perché si sarebbe a sua volta comportata da «talpa». Secondo l’accusa, Francesca Acerra riferì agli altri dirigenti il contenuto della delega d’indagine firmata dal pm che, ovviamente, avrebbe dovuto restare segreta.

Le fughe di notizie sono puntualissime e quotidiane, tant’è che Colucci riesce a sapere in anticipo dell’imminente arrivo dei carabinieri al carcere e si affretta a raggiungere l’Uccella prima di loro. «Sto andando là, anche se non credo che servirà a molto», dice agli altri. E da quel momento è una girandola di maldestri tentativi di occultare le prove del massacro: dalle foto che ritraggono falsi ritrovamenti di armi nelle celle all’altrettanto goffa manomissione i video, fino alle menzogne, «i detenuti hanno distrutto le telecamere durante la rivolta», per non consegnare i filmati ai militari. Tutto inutile. Agli atti ci sono i video dei vergognosi pestaggi, il racconto delle vittime e le prove dei depistaggi architettati per salvare il salvabile.

Video

La paura gioca, in questo brutto affare del carcere di Santa Maria Capua Vetere, un ruolo di primo piano. La paura dei detenuti, che prima dell’intervento del garante Samuele Ciambriello e del magistrato di sorveglianza Marco Puglia, entrambi intervenuti in loro difesa, fingono di essersi procurati le lesioni e tagli cadendo per le scale o nelle docce; la paura dei poliziotti, che quando capiscono che dei pestaggi del 6 aprile è al corrente la Procura commettono un passo falso dopo l’altro. E oltre i depistaggi, ci sono i tentativi di manipolare l’opinione pubblica, di far passare per vittime gli aguzzini. Come la protesta degli agenti sui tetti del carcere per contestare l’irruzione dei carabinieri; come le scomposte reazioni dei sindacaticon la denuncia di «delegittimazione» del corpo. Una baraonda con la quale si cercò di spostare gli obiettivi dai primi, drammatici, racconti dei detenuti che, in quei giorni, oltre i pm, raggiunsero anche i giornali. Ne venne un aspro confronto politico. Il 12 giugno del 2020, Matteo Salvini fece visita ai poliziotti di Santa Maria. Lo invocarono i sindacati, tuttavia agli atti c’è anche l’sos a Salvini di uno dei picchiatori finiti ai domiciliari, Alessandro Biondi, all’ex ministro. «Ciao Matteo, sono un poliziotto penitenziario. Nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere si sono susseguiti una serie di eventi che hanno portato i detenuti ad avere indipendenza gestionale. Per riprendere il controllo dell’istituto vi è stata una operazione di autorità. I detenuti e loro familiari, strumentalizzando la cosa tramite garante e difensori, si sono rivolti alla Procura e come puoi immaginare noi polizia stiamo passando un brutto periodo. Se puoi intervenire. Ho sempre creduto in te». «Il messaggio - si legge agli atti d’indagine - fu inoltrato il 15 aprile 2020 tramite Messenger di Facebook, da Biondi alla pagina Fb collegata al leader politico della Lega Nord Matteo Salvini». Chissà che Salvini abbia mai visualizzato quell’appello così accorato. A Santa Maria, a ogni modo, il leader della Lega ci è tornato anche dopo la divulgazione dei video choc. «Punire i responsabili, ma solidarietà alla polizia penitenziaria, non si trattano gli agenti come camorristi», le parole del leghista accolto, come un anno fa, da una folla di baschi azzurri. 

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