Carcere di Santa Maria Capua Vetere,
dopo le botte l'idea del suicidio di massa

Carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo le botte l'idea del suicidio di massa
di Mary Liguori e Marilù Musto
Giovedì 8 Luglio 2021, 08:00 - Ultimo agg. 19:01
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Oltre le manganellate, i calci, i pugni, gli schiaffi ci sono le pressioni psicologiche, le minacce di punizioni e umiliazioni ancora peggiori di quelle messe in atto durante i pestaggi del 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La minaccia che riferiscono diversi detenuti è inquietante ancor più delle botte che hanno subito. «Nei giorni a seguire, quando le guardie seppero che alcuni di noi li avevano denunciati, uno di loro mi minacciò di stuprarmi con il manganello». Lo racconta uno dei detenuti che ha consentito il riconoscimento dei poliziotti violenti, che è stato refertato per diverse fratture, che cercò aiuto dai medici ma non lo ottenne. Ma non è il solo. Un altro ospite del reparto Nilo, il teatro del massacro, ha riferito agli inquirenti che durante la perquisizione straordinaria, mentre lui e gli altri venivano colpiti a raffica dagli agenti, un poliziotto gli trovò addosso un microcellulare. «A quel punto si legge nel verbale mi intimò di consegnare anche un altro telefonino, ma io non ne avevo più. Mi urlò che me lo avrebbe tirato fuori col manganello. Ebbi così tanta paura che pensai di morire, un altro poliziotto riprese a picchiarmi e mi fece fare delle flessioni mentre ero nudo. A quel punto l'altro mi lasciò in pace». Un altro detenuto riferisce di una perquisizione anale, ma a domanda diretta del pm non conferma lo stupro del quale invece parlano i suoi compagni di cella. «Era sporco di sangue sui pantaloni», uno dei pochi dettagli riferibili. Il resto è orrore nell'orrore, ogni riga dell'ordinanza del gip Sergio Enea trasuda bestialità che trascrivere su un giornale è davvero impossibile. E a sfondo sessuale sono anche le minacce subite da un giovane carcerato, colpito contemporaneamente da venti poliziotti. «Grida che sei un femminello» gli dicevano le guardie mentre lo tempestavano di manganellate. E poi: «Stai ancora bene? Ti devo mettere sulla sedia a rotelle» e ancora: «Devi morire come un cane». Dopo il raid punitivo, i poliziotti cercarono di assicurarsi il silenzio minacciando ancora i detenuti. Dicevano «ritorniamo a picchiarvi» oppure «il tempo che vi riprendete e ricominciamo», «ci riposiamo e vi bastoniamo di nuovo», racconta una delle vittime.

I detenuti, prostrati dai pestaggi e dall'eventualità di subire altre botte, arrivarono a minacciare il suicidio di massa. «Noi minacciavamo di ucciderci, eravamo disperati, e loro a quel punto passavano solo a controllarci perché se fossimo morti avrebbero passato un guaio».

E poi atti di autolesionismo finalizzati a ottenere soccorsi che non arrivarono mai: «Stavo così male che per far intervenire un medico mi procurai delle ferite alle braccia tagliandomi con un pezzo di latta», dice un altro detenuto «ma non venne nessuno», poi mostra la cicatrici al magistrato.

Video

I racconti agli atti sono, come è ormai noto, suffragati dai video delle telecamere del reparto Nilo che gli agenti credevano di aver spento e invece hanno registrato oltre quattro ore di violenze e abusi. E nei nuovi frame divulgati ci sono pestaggi su detenuti ormai in ginocchio, altri che implorano pietà e piangono, altri, ancora, trascinati per terra come sacchi mentre i poliziotti colpiscono e colpiscono ancora. Oltre i manganelli, colpisce il su e giù di quelle mani foderate da guanti di lattice rossi, blu e bianchi che gli agenti indossano, con le mascherine, per difendersi dal virus, mentre ai detenuti non era stato dato per giorni alcun dispositivo di protezione, motivo questo della protesta del giorno precedente i pestaggi. Chi non ha lo sfollagente colpisce con le mani, come se sentisse l'obbligo di sfogarsi pur non avendo armi. E poi li si vede, gli agenti sotto inchiesta, battere con quei manganelli contro gli scudi e contro le grate, in un gesto di inequivocabile carica reciproca. 

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