La crisi dei rifiuti a Napoli e la solidarietà di Gigi Riva

Le belle parole del campione nel 2008

I funerali di Gigi Riva
I funerali di Gigi Riva
di Gigi Di Fiore
Giovedì 25 Gennaio 2024, 23:22 - Ultimo agg. 27 Gennaio, 13:21
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«Ai miei tempi tra napoletani e cagliaritani allo stadio c'era simpatia» disse, solidale con quanto si viveva a Napoli in quei giorni. Mi trovai a pochi metri dal mio idolo di bambino. Era lui, Gigi Riva, che quella domenica del 13 gennaio 2008 passeggiava in via Roma a Cagliari. Stretto nel suo montgomery blu, stringeva tante mani, si fermava a parlare con tutti. E fumava. Da poco aveva salutato il sindaco di Cagliari e mi avvicinai. Quando mi capitava un'altra occasione di trovarmi così vicino a lui, «Rombo di tuono», il calciatore che campeggiava sul poster con maglia della Nazionale nella mia cameretta da bambino, l'eroe delle foto del libro di Rolly Marchi «Messico azzurro» che nel 1970 fui tra i primi a comprare. Il gigante che mio padre mi aveva portato ad ammirare al San Paolo nella fantastica Italia-Germania est del 22 novembre 1969 con il suo memorabile gol di testa in tuffo.


«Buongiorno, posso chiederle qualcosa?» mi avvicinai, mi presentai. Provavo imbarazzo nel groviglio di ricordi di bambino che litigavano con il contegno professionale da impormi. Ero a Cagliari per raccontare gli incidenti provocati dall'arrivo dei camion di rifiuti da Napoli.

Erano i giorni dell'emergenza discariche in Campania e si era pensato anche alla Sardegna, scatenando tafferugli e arresti. E quella domenica di sole dalla temperatura mite, mi riservò l'incontro con Giggiriva tutto attaccato. Sapevo tutto della sua depressione, la presi alla lontana spiegandogli perché ero a Cagliari. Passò subito al «tu» e ne fui lusingato. L'amore per la terra che aveva scelto per vivere trasparì dal suo commento sui tafferugli: «Non è questa la Sardegna, non sono questi i sardi. È gente accogliente, credimi».

Gli credevo. Fumava e camminavamo. Di fronte, mi confidò, l'aspettavano la sorella con i nipoti per pranzare. Ma mi dedicò una ventina di minuti, tra strette di mano e sorrisi ai tanti che si avvicinavano senza invadenza. Lavorava ancora in Federazione, mi spiegò, dopo la vittoria ai Mondiali della Nazionale nel 2006. La settimana se l'era organizzata così: dal martedì al venerdì a Roma, il fine settimana a Cagliari. Dissi timido, lasciando poi sfumare: «Sei stato il mio idolo». Sorrise e glissò. Poi, mi aggiunse: «Sai, ho imparato ad amare questa terra, ne sono legato. Ci vivono anche alcuni miei familiari».

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Quella domenica il Cagliari avrebbe giocato in casa contro l'Udinese, pensavo sarebbe andato alla partita. Mi rispose: «Non vado allo stadio, per rispetto. Sono stati affettuosi, hanno ritirato la mia maglia numero 11, sai?» Lo sapevo, lo seguivo sempre. Ero incerto se farlo, ma osai: gli chiesi un autografo. Non era professionale, ma chi se ne fregava, davanti a me c'era «Rombo di tuono». Ebbi un sussulto di pudore: lo feci dedicare a mio figlio e non a me. Lui lo fece e, mentre scriveva, disse che «il calcio era cambiato, che ai suoi tempi non c'era tanta violenza». Sul fogliettino a quadretti del mio taccuino di appunti, scrisse: «Per Andrea con sportiva simpatia Gigi Riva». Firma da decifrare, ma la vidi scrivere in diretta. «Ora devo lasciarti, di fronte sono arrivati i miei nipoti. È stato un piacere». Sorrise e mi strinse la mano. Conservo quell'autografo come una reliquia, fu pretesto per raccontare a mio figlio chi era Gigi Riva. Fissai quella chiacchierata in una breve intervista aggiunta al pezzo da Cagliari. «Gigi Riva amaro: non è questa la vera Sardegna» fu il titolo. Forse l'ultima intervista di «Rombo di tuono» al Mattino.

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